INCLUSIONE: UN PASSO INDIETRO?
È notizia di quest’ultimo periodo che alcune grandi aziende americane come Ford, Harley-Davidson e Microsoft stanno rivedendo o riducendo i loro programmi centrati su diversità, equità e inclusione (DEI). Questo trend riflette un crescente orientamento da parte di alcuni settori della società e dei consumatori, in particolare negli Stati Uniti, contro alcune iniziative percepite come “woke” o troppo “politically correct”.
Ford ha recentemente annunciato di voler interrompere alcune delle sue iniziative DEI, tra cui la partecipazione a indagini di gruppi di advocacy LGBTQ e l’uso di quote per i concessionari e i fornitori appartenenti a minoranze. L’azienda ha dichiarato che le sue decisioni sono legate ai cambiamenti del contesto politico e legale e alle pressioni da parte di una clientela con diverse sensibilità culturali e politiche. Harley-Davidson, sotto la pressione di alcune campagne social condotte da attivisti conservatori come Robby Starbuck, ha deciso di fermare alcune delle sue attività legate alla diversità e ai diritti LGBTQ, ritirando il supporto a eventi Pride e ponendo fine delle collaborazioni con organizzazioni come la Human Rights Campaign. La decisione arriva dopo crescenti critiche sui social media e al malcontento di alcuni gruppi di consumatori, in particolare nella comunità dei motociclisti. Microsoft ha ridotto il suo organico dedicato alle attività DEI, con un impatto significativo sulle operazioni locali USA, a causa di “cambiamenti nelle esigenze aziendali”. Altre imprese importanti come John Deere e Molson Coors stanno facendo passi simili, ricalibrando o abbandonando alcuni programmi di inclusione. Queste iniziative per ora riguardano solo aziende americane e sono probabilmente anche la conseguenza del clima fortemente polarizzato legato alle elezioni presidenziali americane. Sarebbe però un errore liquidare il fenomeno come circoscritto ai soli Stati Uniti.
Alcune aziende europee, infatti, stanno mostrando segni di rallentamento rispetto agli investimenti nelle politiche DEI. Sebbene il fenomeno non sia così marcato come negli Stati Uniti, si notano comunque delle difficoltà nel mantenere alto l’impegno su questi temi. Uno studio del EY European DEI Index ha rilevato che solo il 7% delle aziende in Europa sta effettivamente costruendo una cultura inclusiva in modo concreto e genuino. Inoltre, il report di Culture Amp “Workplace Diversity, Equity, and Inclusion Report” sottolinea un calo di fiducia tra i professionisti delle risorse umane e i dipendenti riguardo all’impegno delle loro organizzazioni verso le politiche DEI. Rispetto agli anni precedenti, molte aziende stanno riducendo il budget per queste iniziative e limitando le persone dedicate. Sotto accusa sembrerebbe essere la cosiddetta “cultura woke”. Con questo termine originariamente si indicava la consapevolezza delle ingiustizie sociali e delle discriminazioni, particolarmente riguardo al razzismo, ma successivamente è stato esteso fino ad abbracciare altre questioni come il genere, la sessualità, i diritti LGBTQ+, il cambiamento climatico e la disuguaglianza economica. Tuttavia, negli ultimi anni, in certi ambienti il termine ha assunto una connotazione negativa, per descrivere un eccesso di attivismo o una ipersensibilità riguardo a temi sociali e politici, considerati esagerati o imposti in modo coercitivo. Se da un lato la cultura woke nasce con l’intento di promuovere giustizia e uguaglianza, dall’altro viene criticata per il suo presunto approccio dogmatico e per i suoi effetti divisivi. Il tema è sicuramente controverso. Barack Obama ha detto: “This idea of purity and you’re never compromised and you’re always politically ‘woke’ and all that stuff—you should get over that quickly. The world is messy; there are ambiguities. People who do really good stuff have flaws.” È forse davvero necessario smorzare alcuni atteggiamenti troppo ideologici o improntati ad una supposta superiorità morale, pur senza rinunciare però all’impegno ad un approccio inclusivo nella gestione delle persone nelle organizzazioni.
Paolo Iacci, Presidente Eca, Università Statale di Milano