Adeguare gli stipendi al costo della vita: una necessità per l’equità sociale

 da Hr Online

 

L’equità non è trattare tutti allo stesso modo, ma offrire a ciascuno ciò di cui ha bisogno per vivere dignitosamente.

Il dibattito sull’adeguamento degli stipendi al costo della vita nelle diverse province italiane è tornato al centro dell’attenzione. I CCNL non tengono conto delle differenze geografiche, nonostante il costo della vita possa essere molto differente da zona a zona, determinando, a parità di retribuzione, livelli di qualità della vita molto diversi tra loro. Questa discrepanza genera disuguaglianze economiche e sociali che richiedono un intervento mirato. In città come Milano o Roma, il prezzo degli affitti, dei beni di consumo e dei servizi è notevolmente più alto rispetto a provincie meno urbanizzate. Per un giovane single, il costo del paniere minimo di beni a Milano è del 37% superiore agli altri Comuni sopra i 50.000 abitanti. Il 33% per una coppia. Un salario che garantisce una vita confortevole in una piccola città del Sud potrebbe risultare insufficiente in una metropoli del Nord. Se l’indice del costo della vita a base nazionale è 100, il costo a Milano è 120, a Roma 115, a Bologna 110, a Firenze 108, mentre a Napoli è 95, a Palermo 90, a Reggio Calabria 88 e a Potenza 86. I costi della casa, inoltre, variano in misura ancora più accentuata. Io credo che occorra riconoscere queste differenze, assicurando a tutti i lavoratori la possibilità di mantenere un tenore di vita dignitoso, indipendentemente dalla zona in cui vivono.

Per garantire questo principio i nostri padri costituenti nel 1946 avevano introdotto le cosiddette “gabbie salariali”, un meccanismo di differenziazione salariale geografica. L’Italia veniva suddivisa in diverse zone salariali e nelle zone con un costo della vita più basso (prevalentemente nel Sud Italia) si prevedevano salari più bassi rispetto a quelle con un costo della vita più alto. Le gabbie salariali furono abolite nel 1969. Il sistema era considerato discriminatorio perché penalizzava i lavoratori del Sud, perpetuando le disuguaglianze economiche tra le diverse regioni. Nonostante svolgessero le stesse mansioni dei colleghi del Nord, i lavoratori del Sud ricevevano infatti salari inferiori. Questo fenomeno incentivava l’emigrazione dal sud al nord e non facilitava lo sviluppo industriale nelle aree meridionali. Eliminando la differenziazione basata sulla geografia, si mirava a garantire pari retribuzione per pari lavoro su tutto il territorio nazionale. Si trattava di una questione di equità sociale che mirava a ridurre le disuguaglianze e a promuovere una distribuzione più equilibrata della ricchezza.

Queste considerazioni non possono, però, far dimenticare la realtà che noi oggi viviamo. Negli ultimi anni, le disparità regionali si sono accentuate. La globalizzazione, le crisi economiche e la pandemia hanno amplificato le differenze nel costo della vita e nelle opportunità economiche tra Nord e Sud, tra aree urbane e rurali. Le differenze salariali non adeguate al costo della vita aumentano le disuguaglianze sociali, causando fenomeni come l’emigrazione interna verso le grandi città o addirittura all’estero. Molti lavoratori nelle aree ad alto costo della vita faticano a coprire le spese essenziali, nonostante stipendi nominalmente adeguati. Allineare i salari al costo della vita potrebbe incentivare i consumi locali, stimolare l’economia e favorire una crescita più equilibrata. Inoltre, le aziende situate in aree ad alto costo della vita potrebbero comunque attrarre e mantenere talenti offrendo stipendi effettivamente adeguati. Il tema della differenziazione salariale è uno dei temi più difficile da affrontare perché fortemente divisivo e connotato anche sul versante politico e ideologico. Nondimeno tutti noi abbiamo il dovere di non nascondere la testa sotto il cuscino.

L’idea di armonizzare gli stipendi al costo della vita, senza passare per le gabbie salariali classiche, è un tema delicato. Può tuttavia essere affrontato attraverso strumenti flessibili e moderni, minimizzando l’attrito con il sindacato e la politica.

Ecco alcune possibili soluzioni:

  1. Introduzione di coefficienti di adeguamento regionale: un metodo potrebbe consistere nell’applicazione di un coefficiente di aggiustamento regionale sugli stipendi base. Questo coefficiente, calcolato in base al costo della vita nelle diverse regioni, aggiungerebbe una percentuale al salario per coprire l’aumento dei costi nelle zone più care. È un approccio più flessibile rispetto alle gabbie salariali, in quanto non prevede la fissazione di stipendi rigidi per aree, ma solo un adattamento variabile.
  2. Integrazioni salariali su base comunale o provinciale : piuttosto che a livello di stipendi base, un’integrazione salariale aggiuntiva può essere concessa da enti comunali o regionali tramite sussidi fiscali o altri strumenti locali. Ad esempio, alcune regioni ad alto costo potrebbero decidere di ridurre le imposte sui salari o concedere bonus mensili, in modo che i datori di lavoro non siano costretti a gestire incrementi diretti sugli stipendi.
  3. Contrattazione decentrata e premi legati al costo della vita: una maggiore contrattazione decentrata può permettere di definire pacchetti salariali in base alla zona. Attraverso la contrattazione territoriale si potrebbero includere premi di produttività o compensazioni per il costo della vita, mantenendo un salario base uniforme a livello nazionale. Con specifici rimandi dei CCNL alla contrattazione provinciale o regionale di secondo livello, si potrebbe offrire la possibilità di integrazioni variabili.
  4. Adeguamento delle tariffe professionali: per determinate categorie di lavoratori autonomi o professionisti, si potrebbero stabilire tariffe minime basate sul costo della vita regionale, con possibilità di adeguamento annuale. Questo potrebbe ridurre la discrepanza tra le aree a diverso livello di costo e migliorare la competitività delle aree meno care.
  5. Miglioramento delle agevolazioni per il trasferimento geografico: le imprese possono essere agevolate nel coprire le spese di trasferimento.
  6. Introduzione di benefit specifici legati al territorio: anziché aumentare salariali diretti, si potrebbero prevedere benefit territoriali, come buoni per il trasporto, alloggi aziendali, sconti su servizi locali o altre agevolazioni specifiche in aree con alto costo della vita. Questi possono migliorare il potere d’acquisto senza variare formalmente il salario.
  7. Riforma del welfare aziendale: rafforzando il welfare aziendale e i servizi offerti ai dipendenti, come sanità integrativa, istruzione, trasporti e convenzioni, si potrebbe riuscire a contenere l’impatto delle differenze nel costo della vita, senza passare per la strada delle differenziazioni salariali dirette.

Queste soluzioni sono solo alcune tra quelle possibili. Probabilmente presentano difetti, ma ritengo opportuno che si esca dalla fase dei veti incrociati per venire incontro alle reali necessità dei lavoratori. Le soluzioni proposte (e altre che ancora potranno venire) potrebbero essere modulate per risultare più accettabili sia dai sindacati sia dalle aziende, poiché consentirebbero di introdurre delle flessibilità senza creare disparità rigide. Adeguare gli stipendi al costo della vita non è solo una questione economica, ma rappresenta un passo fondamentale verso una maggiore equità sociale. Riconoscere le diversità territoriali e agire di conseguenza è essenziale per garantire a tutti i cittadini le stesse opportunità e condizioni di vita dignitose. Introdurre correttivi significa oggi investire in una società più giusta e sostenibile.

 

 

Paolo Iacci, Presidente Eca, Università Statale di Milano

 

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