AAA LAVORATORI DISPERATAMENTE CERCASI
In un Paese industriale avanzato, con un sistema istituzionale funzionante, potersi basare su un efficace sistema di educazione di base e di formazione specialistica dovrebbe essere una precondizione, quasi scontata, per fare impresa. Nel nostro Paese così non è. Il 75% delle imprese denunciano di fare fatica a trovare il personale di cui avrebbero bisogno: più del 45% delle ricerche di personale, nei primi tre mesi del 2024, non si sono tradotte in assunzioni. Molte figure professionali, soprattutto di tecnici specializzati, sono introvabili. Le imprese se le rubano l’una con l’altra, in un gioco che sembra non trovare mai fine. I due anni successivi al covid hanno visto registrare 300.000 dimissioni aggiuntive, anno su anno, rispetto ai due anni precedenti la pandemia. Per sette trimestri di fila il nostro Paese ha registrato un incremento nel numero di persone occupate. Per registrare lo stesso livello di occupati in Italia dobbiamo tornare agli inizi degli anni ’70. Il numero dei neet in Italia dal 2019 ad oggi è diminuito di circa un milione, anche se l’Italia in ambito UE rimane il fanalino di coda, con i suoi due milioni di ragazzi che non studiano e non lavorano. Eppure, le imprese continuano a lamentare difficoltà nel reperimento di personale. Quali sono le cause di questa endemica difficoltà?
- Da decenni siamo entrati in un progressivo “inverno demografico”. I nati residenti in Italia sono 379mila, con un tasso di natalità pari al 6,4 per mille. Per tre anni di fila abbiamo superato il record negativo dall’unità d’Italia ad oggi. Nemmeno nel pieno delle due guerre mondiali avevamo raggiunto tassi così bassi. Si aggiunga che da quindici anni a questa parte se ne vanno dal nostro Paese circa 140.000 persone, il 70% dei quali sono giovani (il 40% laureati). Attualmente gli italiani all’estero sono 5,9 milioni contro i 5 milioni di stranieri in Italia.
- Come Paese, complessivamente, disponiamo di un basso livello di preparazione scolastica . Secondo l’Ocse il 28% dei nostri connazionali sono “analfabeti funzionali”. L’analfabetismo funzionale è definito come “la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”. Un ulteriore 18% della popolazione “non raggiunge le competenze sufficienti per poter analizzare un testo di cui ha familiarità”. A questo si aggiunga che l’Italia è quinta tra i paesi Ue per abbandoni scolastici precoci (11,5% media). In Sicilia e in Campania oltre il 15% dei giovani ha lasciato la scuola prima del tempo, mentre Marche e Basilicata sono poco sopra il 5%. Dal 2008 ad oggi il tasso di occupazione tra chi abbandona precocemente è crollato, andando ad alimentare costantemente il lavoro nero e il numero dei neet.
- La condizione del nostro sistema educativo a livello superiore è sicuramente critica. Siamo usciti dal Covid e dalla scarsa qualità della Dad. Ma il gap negli apprendimenti resta elevato, e per l’auspicata inversione di tendenza dobbiamo ancora attendere. La fotografia scattata dalle prove Invalsi 2023 conferma come uno studente su due esca dalle superiori con competenze inadeguate in italiano e matematica. Più precisamente, in italiano il 49% degli studenti non ha raggiunto nemmeno il livello considerato base in UE. Il divario tra Nord e Sud raggiunge la quota di ben 23 punti percentuali. In matematica la percentuale di chi non ha raggiunto il livello base è pari al 50% degli studenti. Qui il divario tra le aree del Paese raggiunge i 31 punti percentuali. In inglese (listening) la percentuale di chi non ha raggiunto il livello B2 è del 59%.
- Sul totale della popolazione tra i 25 e i 64 anni di età, la percentuale dei laureati in Italia è pari al 20% contro una media UE del 33,4% e punte del 40,7% in Francia e Spagna. Questo divario è particolarmente evidente per le discipline Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica): abbiamo una media di 6,7% di laureati in materie tecnico-scientifiche contro una media europea del 12-13%. Secondo l’ISTAT, nel 2022, il 23,8% dei giovani tra 24 e 35 anni aveva una laurea nelle aree disciplinari STEM: se guardiamo agli uomini, la percentuale sale al 34,5%, mentre se guardiamo le donne scende al 16,6%. Questo, in parte, spiega perché, nonostante il livello di istruzione delle donne sia mediamente più elevato, il tasso di occupazione femminile è notevolmente più basso di quello maschile, rispettivamente il 56,1% e il 76,8%.
- Gli ITS sono un’ottima esperienza: a un anno dal diploma l’87% degli iscritti ha un lavoro stabile. Il problema è che il numero degli iscritti, circa 24.000, è assolutamente troppo basso. Per dare un’idea delle proporzioni, la Germania conta circa 1 milione di iscritti. Il nostro Paese manca di un’efficace funzione di orientamento che aiuti famiglie e giovani a scelte coerenti con le opportunità lavorative reali. I servizi pubblici di orientamento, nel nostro Paese, non hanno mai funzionato, seppure si possano individuare alcune eccezioni positive. Anche l’esperienza dei navigator all’interno delle norme previste dal Reddito di cittadinanza è stata un flop assoluto. Eppure, il tema dell’orientamento, come quello della qualità del nostro sistema formativo, non è tra la lista delle priorità delle istituzioni e delle forze politiche nel nostro Paese.
- Vi è una diffusa sottovalutazione del lavoro manuale. Per ogni 100 italiani tra i 25 e i 29 anni che lavorano, solo 5,8 fanno un lavoro manuale non qualificato a fronte dei 29,3 stranieri che lavorano, nella stessa fascia di età. La percentuale cresce nel lavoro manuale specializzato (il 20,5%), ma resta inferiore a quella degli stranieri (37,3%). Anche per ciò che riguarda il lavoro manuale vi è uno scarto marcato tra domanda e offerta di lavoro. Nel nostro Paese mancano idraulici, sarti, fornai, autisti, falegnami, operai (specializzati e non), operatori sanitari, muratori, magazzinieri, e così via. La formazione professionale pubblica è al collasso. Sicuramente meglio la formazione professionale che vede l’alleanza tra pubblico e privato, con tassi di occupazione a fine ciclo assolutamente divergenti.
Come dicevamo all’inizio di questo articolo, in un Paese industriale avanzato, con un sistema istituzionale funzionante, potersi basare su un efficace sistema di educazione di base e di formazione specialistica dovrebbe essere una precondizione, quasi scontata, per fare impresa. Nel nostro Paese così non è. Per questo motivo abbiamo deciso di rendere conto di alcune esperienze che le nostre imprese hanno condotto in questo ultimo periodo. Le scuole di mestiere si stanno moltiplicando, sia nelle singole imprese, sia nei distretti industriali. Vi sono interessanti alleanze tra pubblico e privato per supplire a una formazione professionale pubblica assolutamente insoddisfacente. Vi sono positive esperienze sia a livello di scuola media superiore sia in ambito universitario. La PA cerca di stare al passo con i ritmi dell’innovazione, pur tra mille difficoltà. Come persone d’azienda siamo abituati a rispondere al pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà. Di questo cerchiamo di dare evidenza e ragione in questo numero. Nondimeno, non possiamo nasconderci dietro a un dito. L’impresa deve fare impresa. Non può supplire in toto alle carenze delle istituzioni. Trent’anni fa eravamo la quinta economia nel ranking mondiale. Oggi siamo al nono posto per PIL complessivo, a parità di potere d’acquisto, e al 28° posto per PIL pro capite. Siamo una nazione sufficientemente ricca per garantire un livello di benessere tra i più evoluti al mondo. Sufficientemente sviluppata per vantare straordinarie eccellenze nei settori più disparati: dallo spettacolo alle arti, dallo sport alla ricerca scientifica, dall’industria manifatturiera al lusso e al made in Italy. Ma siamo ormai clamorosamente destinati a consumare benessere piuttosto che crearlo, poiché continuiamo a posticipare il momento in cui affrontare i problemi strutturali che la creazione di sviluppo porta con sé. In ogni strato della popolazione si cerca il vantaggio individuale, anche a scapito del bene comune. Lo stato del nostro sistema educativo ne è prova.
Con queste premesse è purtroppo evidente come la nostra società si sia avviata verso un progressivo declino. Come cittadini, come operatori economici, come persone che si occupano di persone nelle organizzazioni, chiediamo un cambio di rotta, un’assunzione di responsabilità. Da parte nostra c’è la volontà di continuare a creare e a diffondere esperienze positive per invertire la rotta, ma non dobbiamo peccare di presunzione o tracotanza. Abbiamo ora più che mai bisogno del supporto di una classe dirigente preparata e responsabile, che abbia la nostra stessa voglia di investire sui giovani e sul futuro del nostro Paese.
Paolo Iacci, Presidente Eca, Università Statale di Milano