LA LEADERSHIP DI ANCELOTTI
Carlo V d’Asburgo è stato imperatore del Sacro Romano Impero Germanico e arciduca d’Austria dal 1519, re di Spagna dal 1516 e principe sovrano dei Paesi Bassi, come duca di Borgogna, dal 1506. A capo della Casa d’Asburgo durante tutta la prima metà del ‘500, fu imperatore di un “impero sul quale non tramontava mai il sole” che comprendeva in Europa i Paesi Bassi, la Spagna e il Sud Italia aragonese, i territori austriaci, il Sacro Romano Impero germanico esteso su Germania e Nord Italia, nonché le vaste colonie castigliane e una colonia tedesca nelle Americhe. Parlava tante lingue e ognuna la usava per una determinata situazione: “Parlo in latino o in spagnolo con Dio, in italiano con le donne, in francese con gli uomini e in tedesco col mio cavallo”.
Al giorno d’oggi abbiamo un altro Carlo imperatore, questa volta del pallone. Carlo Ancelotti ha trionfato ovunque: in Italia con il Milan, in Francia con il PSG, in UK con il Chelsea, in Germania con il Bayern e, infine, in Spagna con il Real Madrid. Parlando una sola lingua: quella del calcio. Un numero di trionfi impressionante, prima come calciatore, poi come allenatore.
Carlo Ancelotti è noto nell’ambiente calcistico per il suo proverbiale carattere sereno e quasi distaccato: lui stesso si definisce un “leader calmo”. Grazie a questo lato caratteriale e ad una profonda integrità morale e professionale, Ancelotti è riuscito ad instaurare una comunicazione franca e cordiale in quasi tutti gli ambienti in cui ha lavorato, conquistandosi spesso la stima incondizionata dei suoi calciatori. Da questo punto di vista è molto interessante capire cos’è successo durante la finale di Champions League tra Real Madrid e Borussia lo scorso 1° giugno. Nel primo tempo il Borussia ha il sopravvento: corre di più, aggredisce i madrileni, i quali sembrano intimiditi e non riescono ad imporre il loro gioco. Il primo tempo si chiude sullo 0 a 0, ma il Borussia avrebbe meritato di essere in vantaggio. Poi, nella ripresa, i giocatori della squadra spagnola sembrano rinati. Cambiano modulo, corrono molto di più, sembrano un’altra squadra. Cos’è successo nell’intervallo?
Ancelotti era consapevole, in quel momento, che imporre cambiamenti tattici in autonomia avrebbe potuto essere controproducente. “Non sono arrivato arrabbiato, ma avevo bisogno di chiarire le cose” ha raccontato Ancelotti al termine della partita “Ho parlato con i giocatori e discusso con loro. Non ho preso la decisione da solo, ho detto loro ‘per me dobbiamo cambiare un po’. E loro sono stati d’accordo”.
Ancelotti ha suggerito una variazione inaspettata. Al 54′ è infatti arrivato il cambio di modulo, passando dal classico 4-4-2 iniziale, a un 4-3-3 più propositivo. “Stavamo perdendo molti palloni nella loro metà campo, così ho pensato che fosse meglio avere più giocatori a centro campo. Abbiamo arretrato un giocatore e sfruttato di più l’ampiezza della nostra manovra per fare più cross”. Ha evitato un approccio autoritario, imponendo senza dialogare. Al contrario, il suo metodo si è basato sul confronto e sull’accordo con la squadra.
Di solito, i modelli tradizionali di leadership collocano il leader al vertice della piramide e richiedono che i collaboratori seguano le sue istruzioni. Il leader che opera a supporto della squadra, invece, rovescia la piramide e si posiziona alla base della gerarchia. In un contesto simile, ai giocatori vengono fornite dettagliate descrizioni delle mansioni relative al loro ruolo e il compito del leader è di assisterli nell’esecuzione di questi compiti. “Io dico ai miei giocatori come si devono posizionare quando sono senza la palla, ma quando poi la devono fisicamente giocare lascio che giochino secondo le loro inclinazioni e capacità, per non limitare la loro capacità creativa”. Questa modalità relazionale non implica che le regole diventino permissive o che il leader (allenatore) sia equivalente ai giocatori. Al contrario, questi sono responsabili della corretta esecuzione dei loro compiti. Il risultato finale è un ambiente di lavoro dove si coltivano le relazioni, si valorizza ogni individuo, si rispettano gli standard e si incrementa la produttività del gruppo. L’umiltà intellettuale, connotazione tipica di Ancelotti, è un modo di mantenere le proprie convinzioni con un atteggiamento di apprendimento verso il prossimo avversario e di rispetto per i punti di vista dei giocatori. Il suo modello vuole ridurre gli eventuali effetti negativi del narcisismo che altri suoi colleghi allenatori dimostrano, cercando di promuovere l’impegno e la partecipazione attiva dei calciatori.
Questo stile di leadership ha però anche punti deboli ed è lui stesso a sottolinearli: “a un certo punto viene fuori che un approccio del genere non va bene e il rapporto con il proprietario inizia a logorarsi. Mi arruolano per essere gentile e tranquillo e alla prima avvisaglia di problemi mi additano come troppo debole”. Un aneddoto può aiutarci a capire meglio.
Novembre 2019, Ancelotti è l’allenatore del Napoli. Dopo alcune prestazioni deludenti in campionato, il presidente De Laurentiis annuncia a Radio Kiss Kiss che la squadra sarà messa in ritiro, poco prima della partita di Champions League contro il Salisburgo. Il presidente dichiara che il ritiro avrà una finalità costruttiva e non punitiva e che inizierà subito dopo la partita di Champions del martedì, prolungandosi fino alla domenica successiva. Ancelotti, nella conferenza stampa pre-partita, rimanendo fedele alla sua natura e ritenendo questa decisione eccessivamente rigida, afferma pubblicamente che seguirà le direttive della società, pur non essendo per nulla d’accordo con la decisione presa. Il messaggio che emerge all’esterno, nonostante le rassicurazioni della società, è che questa decisione unilaterale del presidente equivalga di fatto a una delegittimazione della direzione tecnica di Ancelotti.
Questo disorientamento si avverte anche nello spogliatoio: subito dopo la partita di coppa, infatti, si verifica un vero e proprio ammutinamento, con i giocatori che rifiutano di andare in ritiro e uno scambio di parole pesanti contro la società. Sembra che alcuni vengano addirittura alle mani con Edoardo De Laurentiis, figlio del presidente. Nonostante le responsabilità della società, attribuibili in gran parte a una gestione ancora molto padronale, se Ancelotti avesse mantenuto un atteggiamento più autoritario e al tempo stesso coerente a livello comunicativo, probabilmente avrebbe ridotto alcune delle conseguenze di questo episodio. Diversi mesi dopo, il capitano del Napoli Lorenzo Insigne interverrà su quanto accaduto in quelle settimane: “Il mister è abituato a grandi campioni, io gli dicevo sempre che noi avevamo bisogno di essere messi sotto pressione, anche ripresi se necessario. Mi rendo conto che la mia è un’autocritica: siamo professionisti, dovremmo essere autonomi, ma forse in quel momento avevamo bisogno di sentirci sotto pressione”.
Carlo Ancelotti incarna uno stile di leadership sicuramente molto diverso da quello di altri suoi colleghi come Conte, Allegri, Mourinho o Guardiola. Non sono un grande esperto di calcio e quindi preferisco fermarmi qui. Personalmente non credo vi sia uno stile sempre vincente indipendentemente dal contesto e dalla comunità di riferimento. Sicuramente, però, occorre che il leader sia personalmente robusto, solido, trasparente e coerente nelle azioni con ciò che rappresenta. A certi livelli l’ottima preparazione tecnica è una semplice conditio sine qua non. Condizione necessaria, ma non sufficiente per ben operare. All’epoca del triplete nerazzurro tutti si erano complimentati per le caratteristiche dello special one, Josè Mourinho, in larga misura opposte a quelle dell’imperatore Carlo. Io di entrambi apprezzo il genio, la coerenza, la capacità d’indirizzo e il senso di responsabilità.
Paolo Iacci, Presidente Eca, Università Statale di Milano