L’ORIENTAMENTO, DISCIPLINA MANAGERIALE NEGLETTA

 da HR ONLINE

Il 33% degli incidenti stradali mortali è causato dall’abuso d’alcol; dunque, il 67% degli incidenti mortali coinvolgono persone che non hanno bevuto; dunque, è chiaro che la cosa più sicura da fare è guidare ubriachi!

Forse, in materia di traffico, occorre un orientamento più sostenibile…

Per un secolo l’orientamento è stato considerata una disciplina utile ai soli fini dell’orientamento scolare. Frank Parsons ne ha segnato nel 1909, con il suo Choosing a Vocation, le linee guida che sono state seguite fino a tutti gli anni ’80. Parsons, che aveva osservato gli adolescenti di 14 – 16 anni che abbandonavano gli studi, sviluppò un modello di intervento basato su tre fasi distinte: un primo step di indagine psicologico  attitudinale che mirava a capire le attitudini, gli interessi, le risorse e i limiti del soggetto, un secondo momento di analisi dinamica delle necessità prospettiche del mondo del lavoro e, infine, una terza fase di sintesi tra attitudini personali e richieste del mondo professionale. Nei decenni successivi si sono sviluppati test sempre più raffinati a supporto di questo tipo di approccio.

Con la fine del secolo scorso abbiamo assistito a due fenomeni che hanno modificato profondamento l’orientamento. Prima di tutto, con gli anni ’80, si è iniziato a mettere in discussione il concetto di carriera e di successo professionale. Storicamente il concetto di carriera prima di allora era sempre stato molto semplice: l’individuo viene chiamato a coprire nel tempo un insieme di mansioni, via via sempre crescenti, che sono volta per volta qualificate da un crescente livello retributivo e/o una migliore qualifica, posizione, collocazione gerarchica, contenuti e caratteristiche professionali dei compiti. A poco a poco quella concezione è entrata in crisi. Il pensare, così, che fare carriera voleva dire sempre per forza avere più soldi o un rapporto gerarchico superiore, iniziava a cozzare con strutture sempre più piatte, regimi giuslavoristici flessibili, confini organizzativi labili, motivazioni personali differenti da quelle tradizionali. Lentamente si è fatta strada l’idea che fare carriera può consistere nell’essere più autonomo, o più indipendente negli orari, o più credibile nella comunità dei pari, anche a parità di posizione o di retribuzione. Fare carriera, in questa concezione, vuol dire avere più libertà e capacità di scelta sul proprio futuro professionale ed esistenziale. L’orientamento, in questa logica, non deve solo tener conto delle attitudini del soggetto e del mercato del lavoro ma deve porsi una prospettiva più ampia, a favore dell’individuazione e della costruzione di vere e proprie traiettorie di vita. Nell’orientare, non si può quindi tener conto solo delle caratteristiche del soggetto e del mercato del lavoro, ma anche delle connessioni esistenti tra le persone e i loro contesti di vita sociale ed affettiva.

Il secondo grande evento che si è sviluppato nei due decenni di fine secolo ha riguardato l’inaspettato svilupparsi delle nuove tecnologie e del digitale. Tutto sta cambiando con una velocità prima sconosciuta. Grandi masse di persone devono cambiare il proprio modo di lavorare. Non solo. In molti casi devono cambiare mestiere in toto, perché quello di prima non ha più mercato o è stato sostituito dalle macchine. Stiamo assistendo ad azioni di reskilling che toccano centinaia di migliaia di persone, come mai era successo, se non all’inizio della rivoluzione industriale. Questa nuova configurazione dell’assetto socio-economico produce un deciso aumento delle richieste di career counseling. L’attività di orientamento oggi viene quindi rivolta anche a persone adulte e non solo a adolescenti come  era accaduto per gran parte del secolo scorso. Anche a livello internazionale è riconosciuta la necessità di un orientamento permanente, nel corso di tutta la vita adulta (Council of UE 2004 e 2008). All’inizio questa rinnovata spinta all’orientamento rivolto agli adulti si è espressa nelle società di outplacement, ma oggi la richiesta è più ampia. L’orientamento non può più essere un intervento in extremis, nell’immediatezza della transizione di carriera, ma deve svolgere una funzione preventiva e consentire alle persone di attrezzarsi per tempo ai necessari cambiamenti professionali e di carriera, dovuti all’evolversi delle strutture, della tecnologie o degli assetti di vita. Questa funzione non riguarda solo le strutture specializzate, ma interessa sia le moderne funzioni HR, sia gli stessi capi, cui viene richiesta la capacità di prevenire i cambiamenti tecnici e professionali nel settore di loro competenza, consentendo alle persone loro affidate di trovarsi pronte ai repentini processi di upskilling e soprattutto di reskilling, sempre più frequenti al giorno d’oggi.

L’orientamento, quindi, riguarda sia la scuola – a partire dalla scuola dell’obbligo – sia le imprese. Così come ci dobbiamo mettere in una logica di lifelong training, così dobbiamo pensare che l’orientamento non riguardi solo i giovani perché la nostra vita professionale può cambiare direzione anche durante la maturità. Su quest’ultimo punto finora le imprese non sono state ancora davvero coinvolte. Talvolta aiutano i figli dei dipendenti nelle loro scelte scolastiche, ma quando si tratta dei propri collaboratori allora tendono a fare assai poco. Solo in caso di ristrutturazioni o esodi incentivati appaltano questo onere alle società di outplacement. Ma ormai è troppo tardi. Il tema dell’orientamento si profila come una nuova frontiera per gli hr più attenti alle loro persone e alla sostenibilità delle loro imprese di appartenenza.

 

Paolo Iacci, Presidente Eca, Università Statale di Milano

 

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