IL FRATE FRANCESCANO E IL PADRE GESUITA

 da HR ON LINE

UIn frate francescano incontra in chiesa un padre gesuita. Lo vede in un angolo che sta pregando, ma casualmente vede che sta anche fumando!

Allora si avvicina e lo redarguisce: “Padre, ma cosa sta facendo?!”

“Non si vede? Sto pregando”

“Ma, fuma mentre prega?!”

“Sì, perché?”

“Non si può!”

“E chi l’ha detto?”

“Il vescovo! Io adoro fumare e così un giorno sono andato da lui e gli ho chiesto se si può fumare qualche volta durante le preghiere. Mi ha trattato malissimo! Me l’ha proibito assolutamente!”

“Anch’io sono andato dal vescovo e gli ho chiesto: Eccellenza, mentre fumo posso pregare?”
“E lui?”

“Figliolo – mi ha detto – ogni momento è buono per pregare…”
Il linguaggio narrativo, per sua stessa natura, si presta alle più diverse sfumature ed ambiguità. Queste ultime non rappresentano un limite ma, al contrario, una ricchezza per le nostre relazioni. Il linguaggio è sempre strettamente connesso alla rappresentazione del pensiero. Un linguaggio semplice non può che rappresentare un pensiero semplice. Un linguaggio articolato può invece consentire al nostro pensiero  articolazioni altrimenti impossibili. Per la prima volta nella storia, l’uomo contemporaneo è testimone di quello che io chiamo “il paradosso della conoscenza”: più la realtà in cui viviamo è complessa ed articolata, più cerchiamo di rappresentarla con modelli e linguaggi semplicistici ed inadeguati.

Oggi siamo di fronte ad una complessità della nostra società e del nostro sapere che non è mai stata così estesa e di difficile dominio. L’essere umano ne è angosciato, non sa come dominarla e realizza che in realtà ne è dominato. Non è l’uomo ad avere il controllo, ma sono la tecnica e la complessità della realtà a controllare l’uomo. L’essere umano aspira ad avere il controllo di ogni attività, al dominio di una metodologia analitica e al possesso di potenzialità cognitive adeguate, ma coglie l’estrema difficoltà di questi compiti. Ecco che allora si rifugia nel cosiddetto pensiero “breve”. Riduce i problemi complessi a formule semplici, facilmente comprensibili, verosimili ma in realtà non rispondenti alla realtà. L’umanità tende a ridurre la complessità ad ogni costo, la sacrifica entro i limiti di una sintesi forzata, la rimpicciolisce per renderla più comprensibile ed apparentemente prevedibile. Il fine è non sentirsi più inadeguati e in balia del mondo e della tecnologia.

Il linguaggio utilizzato con i nuovi mezzi tecnologici è, allo stesso tempo, causa ed effetto di questo impoverimento della rappresentazione della realtà. La comunicazione digitale è sicuramente funzionale a relazioni brevi, veloci, immediate. Lo è meno per descrivere una realtà complessa o un pensiero articolato.  Il pensiero a poco a poco diventa  per lo più fondato su convinzioni aprioristiche. Non su dati di realtà, ma su pregiudizi. Questo pensiero iper-semplificato si avvale di un linguaggio breve ed impoverito; parla per lemmi, incrocia simboli, si accorcia piuttosto che prendersi lo spazio ed il tempo necessario. L’analfabeta adulto è colui che è convinto di possedere tutte le competenze richieste dal proprio tempo e dal proprio ruolo sociale, in quanto sa usare il pc, surfare in rete e comunicare con i propri simili, ma in realtà si sta sempre più allontanando dai confini del proprio sapere. L’uomo si muove longitudinalmente e non riesce più a cogliere la profondità del mondo da lui stesso creato. Il mondo parcellizzato delle nostre conoscenze, raggruppate disordinatamente in rete, produce una “ignoranza” globale: che non riguarda più quello che siamo, ma piuttosto rimanda a quello che non sappiamo, descrive un limite. Se vogliamo capire qualcosa della complessità in cui siamo immersi rifuggiamo dalla tendenza alla semplificazione e al pensiero breve. Impariamo il digitale, ma sviluppiamo anche il linguaggio narrativo e il pensiero complesso. Apprendiamo la modernità, ma nello stesso tempo recuperiamo la complessità del pensiero critico. Non mandiamo il cervello in soffitta, coltiviamolo.

 

 

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