CAMUS E IL CORONAVIRUS
Siamo in un giorno e in un anno imprecisato della decade del ’40, ad Orano, una desolata città algerina. In questo desolato ambiente improvvisamente si assiste ad una vera e propria moria di ratti, che tuttavia non desta particolare preoccupazione. Inaspettatamente i decessi si allargano anche ad un numero considerevole di abitanti.
Il panico allora inizia a diffondersi, ed il medico Bernard Rieux riconosce i sintomi inequivocabili della peste bubbonica. Mentre l’epidemia scatena il terrore, Orano viene blindata da un cordone sanitario che impedisce alla gente di entrare o uscire dalla città.
Tra i cittadini si assiste a reazioni diverse, tra chi continua la propria vita alla ricerca del divertimento e dei piaceri quotidiani e chi invece si barrica in casa sperando di sfuggire al pandemonio. Rieux presta alacremente il suo sostegno e la sua esperienza di medico per aiutare gli appestati, aiutato da Jean Tarrou, figlio di un avvocato destinato anch’egli alla carriera forense, cui ha rinunciato dopo aver assistito alla freddezza con cui il padre ha vinto una causa condannando l’imputato alla pena di morte.
Mentre la peste dilaga, trasformandosi da bubbonica a polmonare, attorno ai due protagonisti si muovono le storie di altri personaggi, ciascuno mosso dalle più disparate ragioni, chi di potere, chi d’amore, mentre Castel parrebbe finalmente aver sviluppato un siero antidoto. Tra i vari personaggi spicca Cottard, un commerciante che, dopo aver tentato il suicidio, si arricchisce lucrando sulla carenza di generi di prima necessità.
Tutti si chiudono in casa. Chi era già stato infettato, muore. Chi ha ubbidito alle regole ed è rimasto a casa in genere non viene infettato, finché non viene trovato il vaccino. Nella sua ultima fase l’epidemia uccide anche Tarrou. Quest’ultimo, convinto che ormai l’epidemia fosse alla fine, aveva omesso le quotidiane abluzioni nelle sostanze disinfettanti, venendo così contagiato: Rieux, nel frattempo raggiunto dalla notizia della morte della moglie, tenta disperatamente di salvare l’amico, ma ogni sforzo risulta vano. A breve, comunque, l’epidemia giunge al suo epilogo. Quando finalmente il cordone è levato, la città esplode in festa.
L’unico a non gioire è Cottard, che, deluso dalla fine della situazione a lui vantaggiosa, cade vittima di un raptus di follia e, da una finestra della propria abitazione, dà luogo a una sparatoria sulla folla, prima di essere arrestato dalla gendarmeria. Gli abitanti assaporano finalmente di nuovo il gusto della libertà, ma non dimenticano la terribile prova “che li ha messi di fronte all’assurdità della propria esistenza e alla precarietà della condizione umana”.
Questa è la trama de La Peste di Albert Camus, uno dei capolavori della letteratura contemporanea.
Come nel romanzo di Camus, il coronavirus ci sta mettendo di fronte alla nostra caducità. Improvvisamente ci scopriamo fragili ed indifesi. Prima molti erano sicuri di sapere tutto su tutto, oggi anche questi cercano affannosamente gli esperti perché quando la nostra vita è in pericolo scopriamo che di incompetenza si può anche morire.
In un attimo realizziamo di essere diventati i discriminati, i segregati, quelli bloccati alla frontiera, quelli che portano le malattie. Anche se non ne abbiamo colpa. Anche se siamo bianchi, occidentali e viaggiamo in business class. In una società fondata sulla produttività e sul consumo, molte volte fine a sé stesso, improvvisamente arriva l’ordine di fermarsi, di capire cosa è importante nelle nostre vite.
Il virus chiude le scuole e rimette insieme le famiglie. In una dimensione in cui le relazioni, la socialità e la comunicazione sono giocate prevalentemente nel non – luogo del virtuale, dei social network, siamo costretti a riscoprire il valore difensivo delle mura di casa e dell’affetto dei familiari.
In un mondo dove vige la regola dell’individualismo, si scopre che si può sopravvivere solo rispettando tutti le stesse regole, non perché imposte, ma perché servono per il bene comune. La responsabilità è condivisa, dalle tue azioni dipendono le sorti non solo tue, ma anche di tutti quelli che ti circondano. E tu dipendi dalle loro.
Nelle imprese si diceva che cambiare era impossibile. Oggi scopriamo che cambiare è possibile e che in emergenza lo si può fare molto più velocemente di quanto mai si era anche solo immaginato. Nondimeno, quando usciremo da questa emergenza, il Paese probabilmente sarà in recessione. Questa investirà le nostre imprese come il virus ha investito le nostre vite. Qui non si tratta di essere pessimisti o ottimisti. Si tratta, invece, di capire che dobbiamo prepararci sin d’ora.
Cerchiamo di far tesoro di quello che il virus ci sta insegnando in queste ore per prepararci a superare le difficoltà economiche che ci investiranno. Come nella Peste di Camus, prima o poi si toglierà il cordone attorno alle nostre città. In quel momento faremo festa, ma dobbiamo sapere sin d’ora che potremmo ancora “morire” (di recessione, non fisicamente) se ci dimenticheremo che siamo fragili e possiamo resistere solo facendo squadra, con abnegazione e rispetto reciproco, con la serietà della nostra professionalità, senza indulgere in facili scorciatoie.