UN ASSIOMA DELLA COMUNICAZIONE
Dialogo tra lui e lei, una coppia agli albori…
Lei: Ciao Luigi!
Lui: Finalmente, era tanto che aspettavo!
Lei: Vuoi che me ne vada?
Lui: NO! Come ti salta in mente? Il sol pensiero mi spaventa!
Lei: Mi ami?
Lui: Ma certo! Ogni momento del giorno e della notte …
Lei: Mi hai mai tradita?
Lui: NO! Mai!
Lei: Hai voglia di baciarmi?
Lui: Si, sempre … Lo farei in qualunque momento mi sia possibile!
Lei: Mi picchieresti mai?
Lui: Ma sei matta? Dovresti conoscermi oramai …
Lei: Posso avere completa fiducia di te?
Lui: Sì …
Lei: Amore mio…
Dopo una lunga convivenza, poco felice, potreste provare a leggere lo stesso dialogo al contrario, partendo dal fondo…!
In questo momento di molta chiacchiera superficiale e pochissimo dialogo reale, mi piace fermarmi su un assioma che Paul Watzlawick ha definito in modo forse un po’ criptico: “La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze della comunicazione”. A seconda della “punteggiatura” usata, cambia il significato dato alla comunicazione e alla relazione.
Facciamo il caso concreto di due partner che litigano. Ognuno dichiara di reagire in un determinato modo in conseguenza del comportamento dell’altro. Ipotizziamo una situazione in cui nella vita quotidiana spesso l’uomo stia in silenzio e allora la donna si alteri. Lui però dichiara di tacere perché lei gli urla sempre addosso. Al contrario, lei afferma di urlare perché lui tace. Chi ha ragione? Forse entrambi, probabilmente nessuno dei due.
Quando spiegano le loro frustrazioni, l’uomo dichiara che chiudersi in sé stesso è la sua unica difesa contro il brontolare della moglie, mentre lei etichetta questa spiegazione come una distorsione grossolana e volontaria di quanto “realmente” accade nel loro matrimonio: lei critica il marito a causa della sua passività. “Io mi chiudo in me stesso perché tu brontoli” e “Io brontolo perché tu ti chiudi in te stesso”. Il punto è che la comunicazione ormai è avvitata su sé stessa. O i due partner riescono a “meta comunicare”, a fermarsi e ad analizzare insieme quello che sta succedendo, cercando di cambiare entrambi la modalità di comunicazione, oppure per loro non c’è speranza.
Questo assioma vuole evidenziare come una comunicazione sia efficace solo se ogni parte riesce a comprendere il significato che la sua azione o le sue parole hanno per l’altro e se interpreta correttamente il significato che l’altro con il suo comportamento gli vuol trasmettere.
Un altro esempio simpatico può essere la relazione tra sperimentatore e cavia. Il primo si complimenta con sé stesso perché è riuscito ad insegnarle a premere una certa leva a comando grazie a un piccolo premio, un po’ di cibo. In quel preciso momento la cavia sta pensando con soddisfazione: “L’ho addestrato davvero bene: ogni volta che premo la leva lui mi dà da mangiare”. In effetti, ognuno ha ragione dal suo punto di vista.
Ogni comunicazione comprende diverse versioni della realtà, che si creano e si modificano durante l’interazione tra più individui. Queste diverse interpretazioni dipendono dal modo in cui ognuno tende a credere che l’unica versione possibile dei fatti sia la propria.
Assolutamente niente di nuovo per chi ha studiato un po’ le relazioni umane. Eppure, anche sui luoghi di lavoro stiamo assistendo a processi di progressiva incomunicabilità. L’ascolto sincero sta diventando merce rara. Il livello di insoddisfazione cresce, anche indipendentemente dalla situazione di recessione verso cui ci stiamo nuovamente avviando.
Secondo l’ultima edizione dell’Employee Workmonitor nelle imprese vi è una visione ancora tradizionale dei rapporti gerarchici all’interno delle aziende. La maggioranza degli intervistati vorrebbe maggiore coinvolgimento: più del 30% non si fida dei propri colleghi, la maggioranza non si fida neanche del proprio capo e pensa che sia bene non dargli troppa confidenza. Non proprio una gita di piacere, quindi. La competizione che si acuisce, il senso di indifferenza sociale e l’individualismo sfrenato che si respira sono tutti elementi che non rendono sempre piacevole e produttiva la vita nei nostri luoghi di lavoro.
Come dice Maurizio Ferraris, “che l’umanità sia intenta a pensare con la propria testa più di quanto non sia avvenuto in qualunque altro periodo della storia è comunque una grande conquista. Resta da fare ancora uno sforzo, quello che ci ricordava Kant quando sosteneva che l’Illuminismo non è solo pensare con la propria testa, ma anche l’essere capaci di mettersi nella testa degli altri”.
Sui luoghi di lavoro questo sforzo è prima di tutto dei capi, perché la responsabilità delle persone è loro. Ai colleghi HR va il compito di spingere perché i capi facciano davvero propria questa sfida, non di poco conto.
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