DOVE SI IMPARA A FARE IL TOP MANAGER?

 da il Blog di Paolo Iacci

Poco tempo fa sono stato chiamato a intervenire in un MBA, e mi è stato chiesto dove sarebbe più opportuno andare a lavorare per fare un’esperienza di alto livello, facilmente rivendibile, unanimemente riconosciuta? Detto in altri termini, quali sono le “navi scuola” per top manager,  oggi in Italia?

La risposta appare immediatamente depressiva, come un’ulteriore goccia nel mare della crisi.

In Italia non esiste un know-how manageriale autoctono, né più alcuna azienda che possa definirsi una vera e propria “nave scuola”. Le imprese italiane sembrano mostrare una singolare difficoltà a sedimentare delle capacità funzionali distintive, sviluppando un know-how proprio, unanimemente riconosciuto. Torniamo indietro con la memoria di due o tre decenni. Vi erano delle “navi scuola” indiscusse, specifiche per aree funzionali. La pianificazione e controllo in Montedison, il marketing in 3M, le vendite retail in Procter & Gamble o in Johnson & Johnson, la vendita diretta al Readers’ Digest, lo sviluppo risorse in Unilever, il controllo di gestione in HP, le tecnologie di produzione in Pirelli, solo per fare qualche esempio, sono stati ambiti non solo d’eccellenza, ma anche di creazione e trasmissione sistematica di know-how. Vi sono state aziende che hanno forgiato manager con uno stile proprio, inconfondibile: c’era l’uomo IBM, il manager Olivetti, il quadro FIAT. Aziende che s’identificavano in uno stile preciso, inconfondibile. Modalità peculiari di gestione del business cui erano sottese specifiche convinzioni sul ruolo dell’impresa e sul suo rapporto con l’ambiente che lo circondava. Vi era una vocazione alla costruzione e alla diffusione del know-how che oggi si è perso. La memoria ritorna all’esperienza, ad esempio, dei Quaderni Pirelli o dei rapporti di ricerca Ifap (IRI). Oggi le scuole di management interne sono state tutte chiuse, o fortemente ridimensionate. I primi nomi che vengono in mente in questo senso sono, ad esempio, l’Istituto Piero Pirelli, Ifap, Elea, Cefor, Isvor Fiat e così via. Realtà fondamentali nella costruzione e diffusione del sapere manageriale aziendale che sono state chiuse e non più sostituite. Le esperienze di corporate university, che si sono sviluppate negli ultimi due decenni, fin qui si sono dimostrate più un intelligente make up dell’esistente che non luoghi di elaborazione di strategie e momenti di trasmissione di un know-how strutturato. Il primo momento di freno di un’evoluzione manageriale autoctona si era avuto, negli anni ’60 e ’70, con l’arrivo della grande consulenza internazionale, che ha fornito rigore, metodo e strategie, ma ha anche reso vincenti modelli basati su una forte e rigida omologazione, i cui paradigmi erano costruiti su realtà assai diverse dalle nostre. La consulenza internazionale ha avuto grandi meriti nel razionalizzare i comportamenti imprenditoriali, dando loro continuità e metodo, ma ne ha minimizzati l’humus originale e le radici culturali. I vertici aziendali, negli anni ’80 e ’90,  hanno iniziato a puntare più sulle relazioni esterne, da cui dipendevano in misura crescente i loro iter di carriera, e l’allevamento interno dei manager è diventato quasi una perdita di tempo, fastidiosa e secondaria. I responsabili risorse umane si sono così trasformati in fluidificatori di processi più che in allevatori di talenti, attenti principalmente a che gli ingranaggi della macchina non fossero inceppati dalle persone. Queste sono così divenute delle commodity, nella (errata) convinzione che le risorse sul mercato comunque alla fine si trovano e che queste siano quasi sempre intercambiabili in tempi ragionevolmente brevi.

In Italia, nel frattempo, abbiamo assistito a una netta divaricazione tra grandi e piccole-medie imprese anche sul versante della costruzione del sapere manageriale. Nelle grandi imprese vi è comunque stato, negli ultimi due – tre decenni, un notevolissimo innalzamento del livello medio di cultura manageriale. Oggi la distanza, in termini di qualità dei comportamenti gestionali adottati, tra le nostre grandi imprese e quelle europee o americane non è più così significativa come era sempre stata. I manager italiani con esperienza diretta internazionale si sono moltiplicati in ogni funzione. Una buona conoscenza di almeno una lingua straniera è ormai conditio sine qua non per una carriera anche in aziende non fortemente internazionalizzate o con sporadiche avventure sui mercati esteri. Fanno ancora in parte eccezione le banche territoriali e le assicurazioni, ma è solo questione di tempo. La cultura media si è quindi innalzata e il gap con i nostri concorrenti fortemente diminuito. Nello stesso tempo, però, si sono rarefatti i centri di eccellenza, dove vi è il gusto del sapere funzionale e soprattutto quello della sua trasmissione. Le piccole medie imprese, inoltre, non hanno avuto la possibilità o la lungimiranza di investire in questo senso. La crisi, poi, li ha visti licenziare un numero crescente di dirigenti sostituiti con dei quadri, magari competenti sul versante tecnico ma con un deficit significativo sul versante manageriale. La continua ricerca di risparmi alla lunga sta portando queste imprese a un impoverimento manageriale che si traduce, salvo poche lodevolissime eccezioni, in un perdita in termini di visione strategica. In generale, comunque, il sapere anche quando c’è, assai raramente è razionalizzato e trasmissibile in forma non occasionale. I modelli gestionali di riferimento, di matrice anglosassone, troppo spesso sono presi acriticamente e non vengono né rielaborati, né particolarmente adattati alle nostre specificità, di mercato o culturali. In moltissime aziende s’imparano magari anche ottime competenze tecniche e specialistiche, ma anche queste, non essendo formalizzate, non sono trasmesse in forma organica ma si apprendono solo sul campo, strada facendo. Questa modalità rende il know-how, individuale e collettivo, più concreto ed aderente alla pratica quotidiana, ma al tempo stesso meno fondato e quindi con minor capacità di auto generazione. Non a caso, la dipendenza dalle grandi società di consulenza è sempre più forte, nonostante i clamorosi limiti che queste hanno dimostrato, soprattutto nel corso degli ultimi dieci anni. Con questo modo di formazione del sapere operativo, fondato unicamente sulla trasmissione on the job, gli elementi metodologici sono spesse volte carenti e risulta talvolta manchevole la consapevolezza delle ragioni nell’utilizzo di determinate metodiche operative invece di altre. Manca quindi metodo e interiorizzazione di un sapere comune. Non a caso, si sono fortemente attenuate le caratteristiche peculiari che rendevano alcune aziende un vero e proprio modello originale di comportamento imprenditoriale e, più in generale, di concezione dell’impresa. Se questa crisi è non solo economica, ma si sta dimostrando una crisi soprattutto di senso, lo dobbiamo anche al venir meno di modelli d’impresa cui aderire. Le aziende sono sempre più schiacciate sull’urgenza del momento, sulla tattica a breve, sulla razionalizzazione contingente, e non hanno tempo e spazio, economico e psicologico, per la costruzione di un sapere specifico e distintivo. Tutto ciò contribuisce all’attenuazione del patto tra azienda e lavoratore. Questi si sente sempre più abbandonato, inserito in una realtà sempre meno specifica. L’impresa, a sua volta, in questo modo diviene terreno di conquista delle ultime mode manageriali, prese acriticamente, essendo venuto meno un pensiero strategico e funzionale autonomo. La mancanza di “navi scuola” e di uno stile manageriale autoctono divengono così ad un tempo cause e sintomi di debolezza, non solo del pensiero imprenditoriale italiano, ma più in generale di tutto il nostro sistema economico e produttivo.

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