Gig economy
Il Papa deve partire per una breve trasferta fuori Roma.
Dopo aver caricato tutti i bagagli nella limousine, l’autista nota che Sua Santità sta ancora aspettando sul marciapiede.
“Mi scusi,” dice l’autista, “Vorrebbe per favore sedersi in modo che possiamo andare?”
“Beh, per dirti la verità” risponde il Papa, “Non mi fanno mai guidare in Vaticano e oggi ne ho davvero voglia.”
“Mi dispiace, ma non posso permetterglielo, perderei il lavoro se succedesse qualcosa!” protesta l’autista, desiderando di non essere andato al lavoro quella mattina.
“Vuoi che il Papa insista…?!”
Riluttante, l’autista sale dietro mentre il Papa si mette al volante. L’autista si pente ben presto della sua decisione, vedendo il Pontefice spingere l’acceleratore in modo deciso, portando velocemente la limousine oltre i 200 Km/h.
“La prego, rallenti, Vostra Santità!!!” si dispera l’autista.
Ma il Papa continua a tavoletta fino a quando si sentono delle sirene.
“Oh mamma mia, mi ritireranno la patente!”, piagnucola l’autista.
Il Papa accosta e tira giù il finestrino.
Il poliziotto si avvicina, dà un’occhiata dentro la vettura, torna alla moto e prende la radio. “Devo parlare col capo…”
Il capo risponde alla radio e il poliziotto gli dice di aver fermato una limousine che andava oltre i 200.
“Beh, ritiragli la patente!”
“Non credo che si possa, è un tipo molto importante…” balbetta il poliziotto.
“Una ragione di più per farlo!” Esclama il capo.
“No, intendo DAVVERO importante…” risponde il poliziotto.
“Beh, chi hai lì, il Sindaco?”
“Più in alto!”
“Un ministro?”
“Molto di più!”
“Il Presidente della Repubblica?”
“Di più!”
“ok, mi arrendo, allora chi è?”
“Non lo so, veda lei… Io le posso solo dire che ha il Papa per autista…!!!”
L’autista, come la gran parte del personale di servizio e di tutti coloro che si occupano del sostegno alle famiglia, in Italia, nella maggioranza dei casi fa parte della cosiddetta “Gig economy”.
Gig nello slang americano è lo spettacolo dal vivo o il piccolo concerto: negli anni venti i musicisti jazz che venivano impiegati solo saltuariamente per i singoli concerti venivano appellati con questo termine. Da qui il significato anche di “lavoretto”.
Con il termine “gig economy” si fa quindi riferimento alle “aziende piattaforma”: tutte quelle organizzazioni basate su una piattaforma in cui il cliente finale dialoga direttamente con il produttore del servizio richiesto. Il posto fisso in questi tipi di struttura viene sostituito dalla prestazione occasionale o da altre forme contrattuali più flessibili. E’ questo il caso di Airbnb, dove si possono affittare case da normali cittadini che decidono di aprire temporaneamente a degli ospiti le loro abitazioni private, oppure di Uber che potrebbe in un futuro sostituire l’attuale organizzazione dei taxi come li conosciamo oggi normalmente, e così via. Questo modello è molto interessante dal punto di vista dei servizi offerti e dell’organizzazione sottostante, ma pone degli evidenti problemi di natura fiscale (cfr Airbnb) e di natura giuslavoristica: sono di questi giorni le polemiche legate ai servizi a domicilio offerte da Foodora.
Mc Kinsey, in uno studio da poco pubblicato, segmenta questa enorme massa di lavoratori. Il 30% di chi opera in questo settore, 49 milioni, è definito «Free agent», per il quale il lavoro gig è una scelta e rappresenta il reddito principale. Il 14%, cioè 23 milioni, forma una seconda categoria, i «Riluttanti»: anche qui il loro reddito principale è da indipendenti ma non per scelta, per necessità. Il resto sono lavoratori per i quali si tratta di un reddito supplementare rispetto a uno principale: il 40%, 64 milioni, lo fa per scelta ed è «Casuale» mentre 26 milioni, cioè il 16%, sono persone «Finanziariamente al verde». Tra Usa ed Europa, le percentuali sono simili.
Per molti, quindi, la gig economy è solo l’ultimo modo per definire lo sfruttamento legato alla flessibilità, per molti altri è invece una grande opportunità per potersi mantenere senza rinunciare alla propria libertà e ai propri interessi personali.
Lo studio di McKinsey calcola però solo nel 30% la percentuale di chi è realmente costretto al precariato. Non sappiamo se questo calcolo sia corretto. Sicuramente, però, questo è solo l’ultimo esempio di ricerche che mostrano come la percentuale di chi sceglie liberamente questo tipo di approccio al lavoro è la parte prevalente, soprattutto tra i giovani.
In Italia parliamo sempre e solo di “precariato”, attribuendo a questo termine una valenza negativa e dispregiativa che, invece, descrive solo parzialmente un fenomeno assai più diversificato al proprio interno e comunque in forte crescita in tutto il mondo. Molti disdegnano il posto fisso con i vincoli di orario, di gerarchia e di poca creatività che spesse volte questo comporta e non hanno nessuna intenzione di infilarsi tutta la vita in una gabbia, spesso neanche dorata.
Questa naturalmente è una tesi assai poco “politically correct”. Si rischia come minimo di beccarsi del reazionario.
Credo però che cercare di capire la realtà per come è effettivamente, abbandonando ogni forma di ideologia preconcetta, non sia un’operazione né di destra né di sinistra, ma solo una cosa utile e saggia.
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