Per uno scambio virtuoso tra produttività e salari
Guillaume Apollinaire incontrò un amico di gioventù e sedette con lui al caffè Napolitain, a Parigi, per discutere di arte e poesia. A un tratto si alzò, dicendo: “Scusami, devo andare un momento, ma torno subito”. L’amico aspettò un’ora, poi pagò il conto e se ne andò. Qualche giorno dopo i due s’incontrarono di nuovo. Ovviamente l’amico chiese spiegazioni al poeta.
“Semplice, non avevo un soldo in tasca”.
“Potevi dirlo senza problemi, avrei provveduto comunque io”.
“Ma io credevo che anche tu non avessi un soldo!”.
L’aneddoto mi torna in mente, ripensando lo sviluppo dei rapporti tra le parti sociali per ilrinnovo dei contratti collettivi nazionali.
Nel momento in cui stiamo scrivendo, alcuni milioni di lavoratori aspettano il rinnovo del contratto. Si va dal credito ai metalmeccanici, dagli artigiani al commercio, e ancora avanti con altre categorie numericamente minori.
Una volta definito in qualche modo l’assetto del nuovo welfare, si ripropone in modo forte il nodo dei salari e del sistema di relazioni industriali. Le parti sociali concordano che siamo di fronte ad un sistema di relazioni sindacali e di contrattazione collettiva ormai superata e inadatta ad affrontare i problemi posti dalla concorrenza internazionale. Gli aumenti retributivi sono determinati in larga misura solo a livello nazionale, in modo uniforme ed uguale per tutte le aree del Paese e per tutte le aziende. I CCNL sono diventati così “invadenti” da sottrarre qualsiasi spazio alla negoziazione aziendale.
Dare un salario uguale a tutti si sta risolvendo nel dare a tutti una retribuzione troppo bassa.
I contratti non si firmano e il fatto non può essere accidentale. Il punto è che occorre trovare spazi reali di negoziazione diretta tra impresa e lavoratori.
Ad esempio, nessuno vuole riproporre le antiche gabbie salariali, ma non c’è dubbio che lo stesso aumento corrisponde ad un diverso potere d’acquisto ad Aosta o a Lampedusa.
Analogamente, per molte aziende gli aumenti collettivi possono risultare ininfluenti perché già superati da una politica retributiva molto aggressiva, mentre per altre imprese, in situazioni di difficoltà grave, possono risultare assolutamente non sopportabili.
Ai CCNL si potrebbe affidare il compito di determinare i livelli e gli aumenti dei salari minimi sotto i quali le imprese non possono pagare i loro collaboratori. Questi minimi e i relativi incrementi potrebbero valere per le aziende che non fanno contrattazione e che non pagano cifre aggiuntive ai minimi tabellari determinati a livello nazionale. Per le altre, si potrebbe lasciare alla libera contrattazione tra le parti, a livello aziendale, lo spazio per regolare gli incrementi retributivi in relazione anche allo stato di salute dell’impresa, al potere d’acquisto dei salari a livello locale e all’effettivo sviluppo della produttività aziendale. Come nell’aneddoto ricordato, bisogna saper chiedere i soldi a chi ce li ha e non chiederli a chi per sopravvivere è costretto ad andarsene. Apollinaire non doveva contrattare temi come orari o organizzazione del lavoro, ma forse avrebbe concordato anche lui che, ad esempio, un CCNL come quello del commercio non può regolare centralmente temi complessi come l’utilizzo delle ferie o l’orario, prescindendo dall’organizzazione del lavoro, come se un’azienda di informatica fosse uguale ad una merceria.
Sia l’OCSE (l’associazione che raccoglie i 30 Paesi più industrializzati del mondo), sia Banca d’Italia hanno denunciato due fatti: salari troppo bassi e una percentuale di popolazione attiva ancora troppo lontana dagli obiettivi UE.
Chiare anche le cause indicate per queste anomalie tutte italiane: una fiscalità eccessiva che si scarica soprattutto sul lavoro dipendente, bassa produttività determinata anche da un assetto giuslavoristico e contrattuale troppo rigido, scarsi investimenti in capitale fisico ed umano.
L’Italia continua a non crescere e questa stasi si accompagna ad una perdita del potere d’acquisto dei salari. Le risposte date finora hanno respinto al mittente le richieste di un assetto giuslavoristico più flessibile.
Ci auguriamo che un ripensamento sul nostro assetto di relazioni industriali consentano in un futuro prossimo la possibilità di uno scambio virtuoso tra produttività e potere d’acquisto dei salari.