Mò lo copriamo
“Ho 48 anni e dal luglio 2015 sono disoccupato. L’azienda per la quale lavoravo, ha tagliato delle risorse e “grazie” a questo increscioso evento, ho scoperto che sono troppo vecchio, e possiedo troppa esperienza per lavorare ancora. Ho fatto diversi colloqui con agenzie per il lavoro ma alla fine mi hanno semplicemente risposto “il nostro cliente ha optato per una risorsa più junior”… Ma non è questo il punto della presente… perdoni questo sfogo. Le volevo semplicemente raccontare la mia esperienza al Centro per l’Impiego di Roma di Via Scorticabove e in particolare del servizio di outplacement.
Premetto che conosco perfettamente il tipo di attività e la ritengo sicuramente interessante. Oggi mi trovavo presso il sopracitato ufficio per richiedere un documento, e ho notato che tra i vari servizi elencati, vi era proprio l’outplacement. Ho chiesto all’impiegato dell’accoglienza che avevo necessità di questo servizio, e molto gentilmente mi ha invitato a prendere il numero, indicandomi la stanza corrispondente. Ultima stanza in fondo. Perfetto, prendo i mio numero (002) per l’esattezza, e attendo. Dopo oltre un’ora, del numero 001 neanche l’ombra, e il mio benedetto numero 002 non veniva chiamato. Mi rivolgo di nuovo all’accoglienza e chiedo spiegazioni, mi dicono “si vede che c’è da aspettare”….. attendo altri 10 minuti dopo di che mi alzo e mi dirigo verso la stanza che l’impiegato mi aveva indicato.
La scena è la seguente: due stanze, una completamente vuota, nell’altra c’era una impiegata intenta a navigare su internet alla ricerca di collane e braccialetti (il monitor era rivolto verso la porta e ho potuto guardare con i miei occhi questo scempio). Perdo quasi la calma, mi rivolgo di nuovo al commesso dell’accoglienza e gli spiego cosa ho visto. Il commesso si dirige verso la stanza per “disturbare” la collega intenta nei suoi acquisti pasquali, le spiega che io ero li per un servizio di outplacement; la ridente signora non si scompone affatto, gli dice semplicemente che lei non era addetta a quel servizio, e neanche sapeva cosa fosse. Allora il commesso va nella stanza della responsabile, con tanto di indicazione sulla porta “RESPONSABILE”; esce fuori una signora che chiede a me, “possibile fruitore di quel servizio”, cosa fosse quell’outplacement… neanche fosse una parolaccia.
Morale della favola, al Centro per l’Impiego non conoscono questo servizio, non sanno cosa offre, e quindi nel frattempo, si dedicano allo shopping online. L’impiegato della reception mi ha detto: “sei il primo che chiede una cosa del genere, il cartello deve essere vecchio… mo’ lo copriamo”. Da ignorante mi chiedo, se il cartello è vecchio, sicuramente si dovrebbe conoscere meglio il servizio, dato che in passato è stato svolto. Io intanto continuo ad essere disoccupato, e chi invece è occupato, continua a percepire uno stipendio su un lavoro che non solo evita di svolgere, ma neanche conosce. Cordialmente
Fabio Panzironi”
Normalmente inizio questi miei editoriali con un aneddoto o con una barzelletta. Talvolta però la realtà supera la fantasia, seppur per motivi tragicomici. Per questo motivo oggi ho preferito riprendere una lettera firmata giunta al blog di Pietro Ichino, a cui vi potete rivolgere per trovare riscontro sia di questa lettera giunta il 16 marzo, sia per la risposta della responsabile del citato Centro per l’impiego, datata 4 maggio. Al di là del merito specifico della vicenda vissuta dal malcapitato Fabio Panzironi (che mi auguro abbia nel frattempo trovato lavoro), credo sia necessario cominciare a puntare l’attenzione anche a quella parte del Job Act dedicata alle politiche attive. Finora i riflettori sono stati accesi solo sui licenziamenti e poco altro. In realtà, però, le vere novità riguardano proprio le politiche attive. Fino a marzo 2015 nel nostro sistema giuslavoristico il lavoratore in quanto «individuo» passava per certi versi in secondo piano perché in realtà al centro di tutto il sistema c’era il «posto di lavoro», la sua tutela, la sua protezione, ma soprattutto la sua intangibilità: la reintegra, il divieto di modifica delle mansioni, la sostanziale «intransferibilità» del dipendente erano perfettamente coerenti con questa logica.
Dal 1970, anno del varo dello Statuto dei lavoratori, ad oggi si è visto che un regime di questo genere è riuscito a resistere solo con costi insostenibili e solo se applicato a metà dei lavoratori: perché gli imprenditori possono garantire a una parte dei loro dipendenti una garanzia di forte stabilità, una sostanziale ingessatura del posto di lavoro, soltanto se c’è un’altra parte dei dipendenti che sopportano le conseguenze di tutte le sopravvenienze impreviste, di tutte le fluttuazioni congiunturali, di tutti i piccoli e grandi shock economici o tecnologici che con sempre maggiore frequenza si verificano nella vita delle imprese. Cito Ichino nel ricordare come in Italia si sia creato nel tempo una sorta di apartheid tra i garantiti e quelli periferici, i dipendenti delle aziende con meno di 15 dipendenti, i co.co.co, le partite IVA, i lavoratori in nero, e così via. Siamo arrivati così alla situazione attuale, nella quale i disoccupati restano nel freezer di ammortizzatori sociali male amministrati (quando appartengono ai settori per i quali questi possono essere attivati) mentre le imprese in fase di espansione non trovano il personale qualificato che cercano. Oggi in Italia centinaia di migliaia di posti di lavoro restano permanentemente scoperti per mancanza di offerta di persone dotate della qualificazione necessaria. E ogni anno in Italia chiudono per limiti di età del titolare decine di migliaia di imprese artigiane che non riescono a trasmettere il loro know-how produttivo e il loro avviamento alle nuove generazioni. Il Job Act ha concettualmente spazzato via questa impostazione. Questa “rivoluzione culturale” è il vero merito che va riconosciuto a questa legge. Il futuro però è ancora tutto da costruire.
La sicurezza economica e professionale dei lavoratori non dipenderà più dalla difesa ad oltranza del posto di lavoro ma dalla capacità dei lavoratori stessi di usare il mercato del lavoro e la loro reimpiegabilità per trovare nuove opportunità. Continuo a citare Ichino nel ricordare che oggi, pur in un periodo di crisi economica gravissima, si stipulano in Italia 10 milioni di contratti di lavoro regolari ogni anno, di cui un terzo circa con durata superiore ai sei anni; e di questi, tra un milione e mezzo e due milioni di contratti regolari a tempo indeterminato. Ma chi non dispone delle reti parentali, amicali, professionali indispensabili, non ha alcun accesso a questi flussi di assunzioni.
Se oggi questa prospettiva in Italia è considerata alla stregua di un racconto di fantascienza, nonostante l’imponente quantità di opportunità che il nostro mercato anche in questo periodo di crisi gravissima offre e ancor più potrebbe offrire, è solo perché tutto il sistema di protezione del lavoro è stato focalizzato per decenni sull’ingessatura del singolo rapporto, sulla difesa del lavoratore dal mercato del lavoro, dimenticando totalmente la protezione e il sostegno del lavoratore nel mercato del lavoro. Col risultato che oggi chi perde il posto, o ha la “fortuna” – si fa per dire – di essere messo in freezer per anni con la Cassa integrazione, o è totalmente abbandonato a se stesso. Dobbiamo passare da un sistema di job property ad un sistema dove la cosiddetta employability, cioè la capacità di essere reimpiegato è la vera base di quella sicurezza economica e professionale che dobbiamo garantire a tutti i lavoratori.
Fin qui tutto bene: la riforma era assolutamente necessaria, ma occorre poi aiutare nella pratica i lavoratori a rendersi “rivendibili” sul mercato dei lavori. Il Job Act afferma il principio dell’integrazione tra servizio pubblico e servizi offerti dalle agenzie specializzate private. Ma nella pratica ciò che esce dalle stanze ministeriali e parlamentari è ancora un ruolo centrale per i servizi per l’impiego. Questo è l’assunto da cui partirà il lavoro della neonata ANPAL, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. Questo è un errore madornale.
Chiunque lavora negli uffici di una direzione del personale di un’impresa sa che un eventuale abolizione dei Centri per l’impiego avrebbe un effetto sull’occupazione tendente a zero. Nessuna impresa si rivolge ai Centri per l’impiego se deve cercare un lavoratore, e nessun lavoratore italiano disoccupato ripone alcuna speranza di trovare occupazione attraverso queste strutture. Chi ci prova nove volte su dieci ripercorre la stessa avventura descritta nella lettera da cui sono partito. E purtroppo non si tratta di una barzelletta ma della realtà.
Mai la politica è stata più lontana dal mondo del lavoro come in questo caso. Mai l’ideologia del “pubblico è bello” produrrà danni più gravi a chi è alla ricerca di un posto di lavoro. Naturalmente come per ogni legge ci sono delle eccezioni. Ma mai come in questo caso, purtroppo, l’eccezione conferma la regola.
Se non ci credete, chiedete al povero Fabio Panzironi.