174.517

 da HR ONLINE

Questo editoriale non inizia con la solita barzelletta, oggi proprio non ne ho voglia. Il motivo è presto detto.  In occasione del centenario della nascita di Primo Levi, AIDP il 25 novembre organizza a Milano un incontro sul valore del lavoro e sul ruolo dell’organizzazione negli scritti di questo formidabile testimone della più grande atrocità della storia umana del secolo scorso. Io avrò l’onore di moderare il dibattito tra il pubblico e tre ospiti d’eccezione come Raoul Nacamulli, Walter Passerini e Pino Varchetta (quest’ultimo ha anche appena scritto un libro sul tema, Un andare pensando. Primo Levi e la “zona grigia”)

Per prepararmi all’incontro sto rileggendo il testo forse più coinvolgente ed esplicativo dello scrittore, anche se tra i meno letti, che è I sommersi e i salvati. Primo Levi l’aveva pubblicato un anno prima della sua morte, nel 1986 e tratta il tema del potere.

In questo libro vi è un capitolo, La zona grigia, dove lo scrittore  affronta un problema spinoso: il coinvolgimento dei prigionieri con i loro carnefici, le forme di compromissione attraverso cui alcuni sono riusciti a sopravvivere nel campo di sterminio. Levi parte dalla tendenza manichea di dividere tra vittime e carnefici, tra buoni e cattivi, senza considerare tutte le forme intermedie, rifuggendo così le mezze tinte, le sfumature di grigio, che si trovano tra i due poli estremi: il bianco e il nero. Primo Levi la definisce così: “ È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro potere di giudicare”.

Nel Lager nazista c’è una struttura di potere che vede al vertice le SS e che passa attraverso i Kapò e i “Prominenti”, per arrivare fino a coloro che non rivestono alcun ruolo o potere: gli ultimi. “Per sopravvivere nel campo ciascuno deve entrare in contatto con questa struttura e cercare di ottenere un posto di qualche rilievo, anche minimo, che gli consenta di mangiare un po’ di più, di lavorare un po’ meno, di non stare al freddo, di godere della protezione o della benevolenza di prigionieri di rilievo. Si tratta di una lotta continua e disperante per non diventare un “sommerso”, per non cadere sul fondo della gerarchia sociale ed essere perciò scelti per la camera a gas. Levi spiega in modo chiaro, e senza semplificare mai, questa situazione che fa sì che nel campo di concentramento non ci sia solo o semplicemente la divisione tra amici – i prigionieri – e nemici – le guardie, i Kapò, i carnefici.
Il privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; non è normale che il potere, invece, lo tolleri e lo incoraggi”. Sia chiaro: la responsabilità non è di chi ha dovuto destreggiarsi per sopravvivere, ma di chi ha istituito quella mostruosa macchina di sterminio.

Per spiegare la zona grigia Levi ricorda la figura di Chaim Rumkowski, il potente Presidente del Ghetto di Lodz che lui trasformò in un enorme complesso industriale al servizio della Germania. Convinto che la produttività ebraica avrebbe salvato le loro vite, impose alla popolazione 12 ore di lavoro giornaliero in terribili condizioni. Nel ghetto si producevano divise, oggetti in legno, carpenteria e materiale elettrico per la Wehrmacht tedesca. Grazie alla sua estrema produttività il ghetto di Lodz sopravvisse più a lungo di ogni altro ghetto in Polonia. Nondimeno nel 1944, alla liquidazione del ghetto, anche Rumkowski e la sua famiglia vennero deportati nel campo di concentramento di Auschwitz e lì immediatamente uccisi.

Il ruolo ricoperto da Rumkowski durante le deportazioni rimane ancora oggi ampiamente dibattuto. Alcuni storici e scrittori lo vedono come un traditore e collaborazionista dei tedeschi. Come Presidente del ghetto promulgò infatti nel tempo regolamenti sempre più dispotici e riuscì ad ottenere una produttività oltre ogni limite umano. Altri autori sostengono invece che Rumkowski, ritardando la liquidazione del ghetto, contribuì a salvare i 10.000 ebrei che riuscirono a sopravvivere. Rimane dubbio se Rumkowski, qualora non fosse stato ucciso, avrebbe ricevuto i ringraziamenti dei sopravvissuti piuttosto che non la condanna per tutti coloro che aveva condotto alla morte.

Il caso limite del Lager diventa comunque esemplificativo dell’analisi dei meccanismi di potere nelle  organizzazioni. Le considerazioni del grande scrittore che vogliamo ricordare si applicano a molte condizioni della vita collettiva quotidiana dell’uomo. Il lavoro, se si libera del privilegio, se consente di oltrepassare la dinamica servo – padrone, può divenire “la miglior approssimazione concreta alla felicità sulla terra”.

Come Associazione crediamo che il modo migliore per non dimenticare sia studiare e dibattere quei meccanismi organizzativi e il valore del lavoro come elemento di riscatto e di realizzazione.

Un’ultima cosa: per voi che siete giunti alla fine di questo articolo devo la spiegazione del titolo che ho dato a questo mio breve editoriale: “174.517”.

Il 22 febbraio 1944, Levi e altri 650 ebrei italiani, donne e uomini, vennero stipati su un treno merci e destinati al campo di concentramento di Auschwitz in Polonia. Levi fu qui registrato con il numero 174.517 e subito condotto al campo di Buna-Monowitz, allora conosciuto come Auschwitz III, dove rimase fino alla liberazione da parte dell’Armata Rossa, avvenuta il 27 gennaio 1945. Levi fu uno dei  pochi sopravvissuti tra quanti arrivarono con lui al campo: 20 su 650.

Seguimi su www.paoloiacci.it

Tags: , , ,