ABBAGLIO
Un ricco turista entra in un albergo di un piccolo paese turistico, lascia una banconota da 100 euro sul bancone della reception e va a vedere le stanze al primo piano, per sceglierne una.
Il proprietario dell’albergo prende i 100 euro e corre a pagare il suo debito col macellaio. Il macellaio prende i 100 euro e corre a pagare il suo debito con l’allevatore di maiali.
L’allevatore di maiali prende i 100 euro e corre a pagare il suo debito col suo fornitore di mangime e carburante. Il fornitore di mangime e carburante prende i 100 euro e corre a pagare il suo debito con la prostituta della città, che in questi tempi difficili gli fornisce i suoi servizi a credito.
La prostituta prende i 100 euro e corre all’albergo a pagare il proprietario per la camera che le fornisce a credito quando porta i suoi clienti. Il proprietario dell’albergo prende i 100 euro e li posa sul bancone della reception in modo che il turista non sospetti nulla.
In quel momento, dopo avere ispezionato la stanza, viene giù il turista, riprende i suoi 100 euro, e, dopo avere detto che la stanza non lo soddisfa, lascia il paese.
Nessuno ha guadagnato nulla. Eppure, l’intero paese non ha più debiti e inizia la giornata con più ottimismo.
Cos’è successo in realtà? Può questa storiella insegnarci qualcosa in questo periodo di crisi, economica e sociale?
Partiamo da un piccolo ragionamento sulla crisi. Tra le varie interpretazioni a riguardo, mi ha sempre molto colpito la lettura che ne fa Stefano Zamagni. Le crisi economiche si possono suddividere in due grandi tipologie: quelle duali e quelle entropiche.
Si tendono a nominare duali quelle che nascono da una contrapposizione frontale tra due differenti forze, interessi, modi di intendere la società, l’economia e la vita. Nel conflitto alla base di questo tipo di crisi sono già presenti in nuce tutti gli elementi fondamentali del nuovo successivo assetto. A questa macro tipologia potremmo ascrivere la rivoluzione francese, quella americana o quella russa.
Le crisi entropiche, al contrario, evidenziano un disordine costitutivo del sistema non più gestibile. Come fase conclusiva della sua evoluzione, un sistema implode e una sua parte collassa verso l’interno, sprigionando forti tensioni e conflittualità. Dalla caduta dell’impero romano a quella, assai più recente, dell’impero russo, la storia ha mostrato come questi tipi di crisi possano prendere strade non univoche e difficilmente prevedibili.
Il ritorno ad uno stato armonico richiede un lungo travaglio, dove è fondamentale ricostituire nuove idee- forti, che sappiano indicare un nuovo indirizzo di marcia. E’ difficile ad oggi dire se le crisi che stiamo vivendo e che si susseguono in maniera sempre più ravvicinata le une alle altre tendano a preludere una vera e propria crisi entropica. Sicuramente vi sono alcuni elementi che richiedono un ripensamento forte di alcuni elementi statutari il nostro sistema. Siamo di fronte ad una successione di “bolle” che regolarmente si espandono al di là della propria capacità di tenuta e scoppiano non appena raggiungono il limite della loro resistenza.
L’attuale sequenza di crisi non segna la fine del capitalismo, ma certamente, non possiamo pensare di uscirne con dei semplici aggiustamenti normativi. Alla base della crisi vi sono certamente più concause che hanno giocato, ma al di là delle molte manchevolezze regolatorie e dei sempre possibili errori umani, si evidenzia come alcuni assunti costitutivi il nostro assetto socio economico sembrano non reggere più.
Uno per tutti, la scissione tra lavoro e produzione di ricchezza. Per secoli l’umanità ha posto il lavoro a fondamento del suo sviluppo. Il motto benedettino “Ora et labora” del 529 riscatta il lavoro, fino ad allora appannaggio degli schiavi o della parte più miserevole della popolazione, e lo pone allo stesso livello della preghiera. Nelle chiese riformate, mille anni dopo, il lavoro ottiene un posto ancora più significativo, non potendo avere alcuna cittadinanza, tra il popolo di Dio, tutti coloro che a dio si sottraggono.
A livello mondiale, invece, da un trentina d’anni a questa parte, si è fatta strada la convinzione profonda che il vero imprenditore è solo quello che persegue il massimo profitto possibile, e che questo si può produrre più largamente e molto più in fretta attraverso la leva finanziaria, piuttosto che non grazie alla normale attività produttiva o di servizio. La finanza speculativa assume così una rilevanza strategica e una valorizzazione a cui mai avrebbe pensato di poter assurgere. Il prestigio sociale di chi si dedica a questo tipo di attività, il numero degli operatori, il livello degli stipendi, clamorosamente fuori da ogni paragone con chi lavora in azienda o con altre attività autonome, sono tutti segnali di una rivoluzione culturale i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti.
Tra i giovani, ma ormai anche nelle imprese, sta diffondendosi il convincimento che l’importante è fare quattrini, molti, maledetti e subito; meglio tentare la sorte e non avere troppi scrupoli morali. Le veline inseguono i calciatori e arricchirsi con il proprio lavoro è ormai un’idea assolutamente ridicola. Stiamo assistendo alla riduzione dell’economia a finanza, all’identificazione tra finanza e finanza speculativa e poi alla confusione triviale tra morale e moralismo: tutti questi sono capovolgimenti della realtà socialmente deleteri.
Da questi passaggi apparentemente sillogistici, il concetto stesso di lavoro ne esce a pezzi. Questo sembra non essere più la fonte di ricchezza, che apparentemente risiede nella circolazione del denaro stesso. Così come nella nostra storiella iniziale, la grande circolazione di denaro crea un abbaglio radicale. La semplice circolazione di denaro sembra creare ricchezza di per sé, mentre altro non si produce che la chiusura delle diverse posizioni che ogni esercente del piccolo paese turistico aveva. Ognuno di questi, infatti, aveva una posizione debitoria, ma anche una creditizia di ugual valore. Il denaro altro non fa che svolgere il proprio ruolo di mezzo simbolico delle transazioni economiche. Noi ne abbiamo fatto l’unico fine ma era e rimarrà sempre solo un mezzo. La vita è un’altra cosa. E’ identità e relazione. Il lavoro c’entra proprio con questi due elementi perché è il primo ambito di socialità nella vita adulta e fondamento di ogni concreto progetto di identità sociale e sviluppo individuale nella comunità.
Una società dove si sviluppa una cultura contro il lavoro mina alle fondamenta le sue possibilità di crescita. L’individuo che sviluppa una cultura contro il lavoro incrina le sue possibilità di relazioni sociali adulte e fattive.