I DOLORI DEL GIOVANE ADULTO
Quando un manager incontra un candidato neolaureato presuppone di avere di fronte un adulto. Purtroppo, non è sempre così. Se consultiamo un manuale di psicologia dello sviluppo, possiamo leggere che tradizionalmente l’adolescenza era il periodo orientativamente collocabile tra i 13 e i 20 anni. Questo periodo di transizione all’età adulta si chiudeva, in realtà, nel giro di altri due o tre anni con il debutto nel mondo del lavoro e con l’abbandono della famiglia d’origine. L’esperienza lavorativa e l’abbandono del tetto paterno rappresentavano il primo momento di socialità adulta, con il carico di responsabilità legato alla necessità di provvedere autonomamente a se stessi, ma anche con le opportunità che questo apriva. Oggi i tempi che segnano la fine dell’adolescenza si sono clamorosamente allungati, soprattutto nel nostro paese. In Italia, l’età media al primo impiego è aumentata nel tempo. Secondo i dati ISTAT, nel 2007 era di 20,2 anni. Oggi invece gli uomini italiani iniziano a lavorare in media a 24 anni e le donne a 26,2 anni, con un ritardo rispettivamente di 4,3 e 5 anni rispetto alla media europea. Non solo. Secondo i dati Eurostat del 2022, i giovani italiani lasciano la casa dei genitori in media a 30 anni, contro una media europea di 26 anni (nei paesi nordici ai 21 anni). Più in dettaglio, in Italia gli uomini tendono a lasciare la casa a 31 anni, mentre le donne lo fanno a 29 anni.
All’inizio degli anni duemila lo psicologo americano Jeffrey Arnett ha coniato l’espressione emerging adult-hood, oggi ripresa nell’ambito del sempre più ampio dibattito sul fenomeno di questa tardo adolescenza protratta sempre più a lungo. Le cause sono sia di ordine oggettivo (costo della vita, costo degli affitti e delle abitazioni, scarso potere di acquisto dei primi stipendi, precarietà del lavoro nei primi anni di carriera) sia di carattere soggettivo (tendenze iperprotettive delle famiglie d’origine, atteggiamenti narcisistici e difficoltà ad assumersi responsabilità da parte dei giovani). Sta di fatto che assistiamo sempre più spesso a situazioni in cui c’è un netto divario tra la maturità fisica e il momento in cui si diventa socialmente adulti. Quest’anno in Italia, nell’ambito della psicologia dello sviluppo, si è sviluppato un dibattito sui “giovani adulti” descritti come tardo adolescenti che inconsciamente rifiutano di uscire dall’età adolescenziale per assumersi i carichi propri dell’’età adulta. A questo proposito, già da tempo si parla della “sindrome di Peter Pan”, termine coniato dallo psicologo Dan Kiley che identifica un pattern di comportamenti infantili in questi giovani adulti:
– hanno problemi con le relazioni di lungo termine
– tendono a non prendere decisioni
– evitano il confronto
– hanno un rapporto immaturo con il denaro.
Secondo un’indagine condotta dal sito americano ResumeTemplates su circa 1.500 giovani in cerca di lavoro, il 70 per cento ha ammesso di aver chiesto aiuto ai propri genitori durante la ricerca di un’occupazione. Un altro 25 per cento ha addirittura portato i genitori ai colloqui, mentre molti altri hanno chiesto ai genitori di presentare le domande di lavoro e di scrivere il loro curriculum.
Recentemente, alcune aziende internazionali hanno manifestato riluttanza nell’assumere neolaureati, in particolare appartenenti alla Generazione Z. Secondo un sondaggio condotto da Intelligent, circa il 60% delle aziende ha licenziato almeno un neolaureato assunto nel 2024, e un datore di lavoro su sei si è dichiarato riluttante ad assumere giovani senza esperienza. Oltre a temi legati alla preparazione limitata emergono difficoltà che derivano da atteggiamenti legati ad un’età non ancora pienamente adulta. Un atteggiamento non responsabile verso i compiti assegnati, l’incostanza nella presenza e nelle relazioni con capi e colleghi, le difficoltà comunicative, sono tutti segnali di questa età tardo adolescenziale che tende a prolungarsi e che costituisce un inedito problema con cui le imprese sono chiamate a confrontarsi. Probabilmente assisteremo a un protarsi anche della precarietà dei primi anni di vita lavorativa, in un circolo vizioso di cui è difficile prevedere la fine.