COS’E’ IL QUIET THRIVING
Pittore: “Come va la vendita dei miei quadri?”
Gallerista: “Beh, c’è una notizia buona e una cattiva. È venuto un uomo che mi ha chiesto se tu fossi uno di quei pittori la cui quotazione sicuramente aumenterà dopo la morte. Quando gli ho detto che pensavo di sì, ha comprato tutti i quadri che erano esposti”.
“È fantastico, meglio di così… E qual è la brutta notizia?”
“Era il tuo medico”.
Io credo che, per vivere in maniera autentica, sia necessario confrontarsi apertamente e onestamente con la nostra natura mortale e con i nostri limiti. Dobbiamo assumerci la responsabilità di vivere vite piene e dense di significato, avendo ben presente il tema della fine. Per il filosofo esistenzialista Martin Heidegger vivere all’ombra della morte è l’unico modo autentico di vivere, perché la fine potrebbe giungere in ogni momento e in ogni momento dobbiamo avere la consapevolezza di ciò che abbiamo fatto e quello che avremmo potuto ancora fare. Con il covid il mondo ha guardato in faccia la morte. Tutti insieme, ovunque nel mondo. Chi più, chi meno, ma chiunque è stato toccato da questa esperienza, l’ha respirata nell’aria. Ne siamo usciti diversi. Più fragili, ma anche maggiormente desiderosi di vivere una vita densa già da oggi, senza voler rimandare. Questo doppio sentimento si è riverberato anche nel mondo del lavoro. Il fenomeno del forte incremento di cambi di poltrone (una sorta di grande rimpasto) è stato il frutto di un grande ripensamento sulle priorità della vita. Il lavoro non viene negato, ma deve trovare una sua collocazione a fianco di altre priorità. La salute, gli affetti, le buone relazioni. Non solo nel privato, ma anche nei luoghi di lavoro. Se così non è, meglio andarsene. Se non ci si riesce, che si faccia il meno possibile (la reazione nota come quiet quitting). Però non è un gran bel vivere. Per questo motivo il fenomeno del quiet quitting sta mutando, per una larga fetta di persone, soprattutto giovani, nel cosiddetto quiet thriving.
Di cosa si tratta? Letteralmente si potrebbe tradurre “quieto sviluppo”. Si sta riscoprendo interesse e passione verso il lavoro, avendo però minori aspettative rispetto il secolo scorso e quindi dosando maggiormente gli sforzi, cercando di evitare inutili sovraccarichi di lavoro e di responsabilità. Si cerca, cioè, di trovare una “giusta misura” nel do ut des tra individuo e organizzazione. Si torna ad impegnarsi sul lavoro, ma senza strafare. Si potrebbe forse parlare di maggiore giudizio o, forse, di minore fiducia dell’individuo verso l’organizzazione. La spinta verso il lavorare il meno possibile sta in molti casi lasciando il posto alla voglia di ritrovare piacere e divertimento nel proprio impiego, facendo però attenzione ad evitare di esagerare. Questo implica l’interesse verso il lavoro senza però assumersi un livello eccessivo di responsabilità, così da non penalizzare la propria vita privata, amicale ed affettiva, e ad evitare ogni ansia da prestazione causata da una competizione sfrenata. L’impresa deve imparare a trovare un giusto compromesso tra il desiderio di perseguire risultati sempre più performanti e il rispetto per le fragilità e i desiderata delle persone. Individuo e impresa probabilmente devono ricominciare a imparare a trovare delle nuove più attente distanze tra loro. Solo così entrambe le parti potranno massimizzare le reciproche utilità per un benessere effettivamente comune.
Paolo Iacci, Presidente Eca, Università Statale di Milano