LA FORMAZIONE PER UN MERCATO DEL LAVORO SOSTENIBILE
Il mercato del lavoro nel nostro Paese presenta evidenti contraddizioni. Abbiamo, contemporaneamente, il massimo livello di popolazione attiva negli ultimi cinquant’anni e il massimo livello di inattività giovanile tra i Paesi Ocse. Le nostre imprese non trovano tecnici, ma abbiamo, al contempo, una continua e progressiva emigrazione e i nostri giovani sono assunti con contratti precari con percentuali doppie rispetto la media Ocse. Per mitigare queste contraddizioni, come vedremo, la formazione può giocare un ruolo decisivo.
Partiamo da alcuni dati. In Italia il tasso di occupazione, alla fine del 2022, è del 60,5%, la punta massima nell’ultimo mezzo secolo, la disoccupazione al 7,8% e l’inattività al 34,3%. Nel corso dell’ultimo anno, gli occupati sono saliti di 500.000 unità. Malgrado questo, la disoccupazione giovanile è pari al 9,5% della popolazione in età da lavoro, contro il 7,7% medio dell’area Euro. Solo Spagna e Grecia sono messe peggio di noi. L’occupazione, però, in linea con quanto è successo più in generale a tutta la forza lavoro, è cresciuta del 6,6% solo nell’ultimo anno. L’ISTAT evidenzia come, nel 2022, il tasso di occupazione in Italia sia salito al 60,1%, ma rimanga comunque uno dei più bassi tra i Paesi Ocse, che denunciano un tasso medio del 66%. Il nostro Paese ha una delle più alte percentuali di abbandono scolastico (13,8%) e la più alta quota di Neet (24,3%).
Le cause della disoccupazione sono varie:
- Il mismatch professionale: secondo il Rapporto di Confindustria Genova, Il mercato del lavoro dopo la pandemia, nel 2022 solo il 68% delle assunzioni programmate si sono concretizzate. Negli altri casi, le imprese non sono riuscite ad assumere perché non hanno trovato personale con le necessarie competenze. Palesemente, il nostro sistema economico soffre la mancanza di competenze tecnologiche e manageriali per soddisfare le crescenti richieste della rivoluzione digitale e mostra un evidente skills mismatch anche tra i profili qualificati, con appena un laureato occupato su due che ritiene del tutto efficace il percorso di studi sostenuto.
- L’abbassamento del livello del nostro sistema scolastico: nel 2019, in Italia, la spesa pubblica per istruzione ha rappresentato il 3,9% del Pil, a fronte di una media Ue del 4,7%. Nel 2021, la quota di adulti con, al più, la licenza media è pari al 37,9%. L’Italia si colloca al terzultimo posto in Europa per spesa pubblica in istruzione e i test Invalsi mostrano un progressivo decadimento del livello di istruzione pubblica. Lo stato agonizzante in cui versa il sistema della formazione professionale, da questo punto di vista, è emblematico.
- Assistiamo a una continua emorragia di studenti. Nel 2021, il 12,7% dei giovani d’età tra i 18 e i 24 anni ha abbandonato precocemente gli studi. Nel Mezzogiorno, l’incidenza raggiunge il 16,6%.
- La mancanza di orientamento, a partire dalla fine della scuola dell’obbligo. Le imprese richiederebbero molto più iscritti agli ITIS di quanto non ve ne siano. Anche a livello superiore, in Germania vi sono circa 1 milione di iscritti agli Istituti tecnici superiori, in Italia attualmente sono circa 20.000 e si è posto l’obiettivo per il 2025 di raggiungere quota 45.000. Ben lontano dalle necessità.
- Siamo ancora ancorati a una visione della vita spaccata in due: prima si studia, poi si lavora. Questo impedisce il necessario aggiornamento tecnico-professionale. Il Rapporto ISTAT di fine 2021 evidenzia come il nostro Paese sia al di sotto della media europea per la partecipazione degli adulti ad attività di formazione recente: la percentuale si colloca al 7,2%, contro la media europea del 9,2%. Nel rapporto tra occupati e disoccupati, questi ultimi frequentano molti meno corsi rispetto al personale occupato. Esattamente il contrario di ciò che dovrebbe succedere. Chi prende la Naspi dovrebbe essere obbligato a frequentare corsi di formazione, pena l’esclusione dall’ottenimento del sussidio di disoccupazione. Lo stesso dovrebbe prevedere l’assegno di inclusione.
- La sottovalutazione del lavoro manuale. Il sentiment comune è che il lavoro manuale sia da aborrire, segno di sconfitta sociale. Le fabbriche sono piene di operai senza qualifica stranieri. Tra gli operai gli extracomunitari sono il 19%, addirittura il 29% tra coloro che svolgono compiti non qualificati. Gli italiani non qualificati preferiscono la disoccupazione a un lavoro che ai loro occhi sembra non dignitoso.
In questa situazione, il dato più preoccupante è quello relativo alla inattività. La percentuale dei NEET (Not in Employment, Education or Training) italiani tra i 15 e i 29 anni è pari al 29,8%. Siamo i peggiori in UE e i secondi (dopo il Messico) tra i Paesi Ocse. Si tratta di oltre due milioni di ragazze e ragazzi. La cifra supera i tre milioni se aggiungiamo anche la fascia tra i 29 e i 35 anni.
Tra i NEET, due giovani su tre sono gli stessi inattivi che c’erano prima della pandemia. Il picco occupazionale di quest’ultimo periodo non li ha minimamente toccati. La persistenza nel rimanere in questa enorme sacca di marginalizzazione deve creare grande preoccupazione, soprattutto per ciò che riguarda il nostro Mezzogiorno, dove la percentuale dei giovani che non studiano e non lavorano raggiunge il 39%. Le cause sono le medesime già elencate per la disoccupazione. A queste però ne possiamo aggiungere alcune altre specifiche per questo target:
- I genitori dei neet sono in genere babyboomer che già durante l’iter scolastico dei loro figli li hanno abituati a un atteggiamento molto lassista e permissivo che rischia di marginalizzarli in una adolescenza senza fine.
- L’ascensore sociale si è bloccato. Il Global Social Mobility Index colloca l’Italia al 34° posto su 82 Paesi seguita tra quelli dell’Unione solo dalla Romania (44°) e dalla Grecia (48°)[5]. Secondo l’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development) in Italia sono essere necessarie almeno cinque generazioni per i bambini nati in famiglie a basso reddito per raggiungere un reddito medio. La mancanza di prospettive di benessere o comunque di mantenimento dell’attuale livello sociale e relazionale agisce retroattivamente in senso negativo. Ai loro occhi, Il mondo sembra non avere più niente da offrire e, quindi, vengono meno le ragioni per darsi da fare in cerca di un futuro migliore, che appare impossibile.
- Tra i giovani vi è un diffuso atteggiamento di lontananza e disaffezione verso il lavoro, vissuto non più come mezzo di autorealizzazione, ma come una sentenza a cui sfuggire. Questo sentiment induce a restare ai margini del mercato del lavoro regolare, non più vissuto come un oggetto del desiderio.
- Un forte mercato del lavoro illegale che consente di tirare avanti con espedienti e lavoretti, nell’illusione che questa situazione possa protrarsi all’infinito.
- Politiche pubbliche di sussidi a pioggia, non legati a politiche attive del lavoro.
Un mercato del lavoro così fortemente contraddittorio rischia di non essere più a lungo sostenibile né per le persone né per il Paese. Soprattutto il fenomeno dei NEET e quello del mismatch professionale devono destare preoccupazione. I ragazzi inattivi, infatti, rischiano di passare dalla solitudine o da un senso di marginalizzazione a una deprivazione affettiva o esistenziale, basata sull’incapacità di reagire e risollevarsi. Purtroppo, dobbiamo registrare una bassa attenzione al fenomeno, malgrado la sua portata potenzialmente esplosiva. Le istituzioni finora hanno risposto solo con politiche di sussidi generalizzate o con qualche sgravio fiscale e contributivo per le aziende che assumono. Nessun servizio di orientamento, nessun investimento sul sistema scolastico. Quando si ha occasione di parlare con loro, ci rendono l’immagine di un Paese che sentono distante ed estraneo. Hanno un desiderio di futuro a cui non riusciamo a dare risposta. Vorrebbero avere qualcosa di più che un posto di lavoro, quale esso sia. Hanno la legittima aspirazione di dare un contributo al benessere di tutti. Il lavoro per loro deve avere un significato che vada oltre al semplice guadagno. Il desiderio di avere un ruolo, piccolo o grande che sia, ma comunque di essere importanti per il raggiungimento di un obiettivo dotato di un senso più grande del semplice ricavo economico fine a sé stesso. Anche le singole imprese possono ovviamente svolgere un ruolo in questo senso. La diffusione degli ITS richiede un sostegno vivace e diffuso, anche territorialmente, da parte dei soggetti privati. Occorre incrementare molto l’aggiornamento tecnico, anche se non finanziato. Ridurre sensibilmente i contratti a termine, dare prospettive di crescita maggiori e più concrete. Porsi obiettivi ESG non vuol dire solo prendere qualche certificazione in più, ma dare un contributo per superare le antinomie di un mercato del lavoro ormai non più sostenibile.
Paolo Iacci, Presidente Eca, Università Statale di Milano