LA DONNA O LA TIGRE?
C’era una volta un re che sottoponeva tutti i criminali del regno a un insolito dilemma. Invece di scontare la pena comminata, il reo poteva scegliere di entrare in un’arena dalla quale poteva uscire e conquistare la libertà attraversando la porta giusta tra le due presenti. Dietro alla prima porta c’era una bellissima donna, dietro la seconda una feroce tigre. Il criminale, senza sapere cosa vi fosse dietro, doveva decidere quale porta imboccare. Se avesse scelto la porta con la donna, sarebbe stato dichiarato innocente, ma avrebbe anche dovuto sposare la donna indipendentemente da ogni altro vincolo precedente. Se avesse scelto la porta con la tigre, invece, questa l’avrebbe sbranato.
Un giorno il re scoprì che sua figlia aveva un amante segreto. Furibondo, imprigionò l’amante anche se questi giurava amore eterno alla principessa. Il re decise, inoltre, di sottoporre l’uomo alla prova dell’arena. Uno dei custodi, tuttavia, rivelò in anticipo alla principessa quale fosse la porta con la tigre. La principessa si trovò così di fronte ad un vero dilemma: se avesse suggerito all’amante la porta con la donna, lui si sarebbe salvato, ma lei avrebbe definitivamente perso l’amato, così come se gli avesse suggerito la porta con la tigre. Alla fine, la principessa indicò una porta: “dalla porta uscirà la tigre, oppure la dama?”. La principessa per amore rischierà di vedere il suo amato tra le braccia di un’altra donna oppure preferirà vederlo morire?
Con questa domanda si chiude il racconto “La donna o la tigre?” scritto da Frank R. Stockton per la rivista The Century nel 1882. Nella lingua inglese il titolo del racconto (“The Lady or the Tiger?”) è diventato un’espressione allegorica per indicare un problema senza via d’uscita poiché qualunque scelta risulta inaccettabile.
È sotto gli occhi di tutti come il rapporto tra individuo ed organizzazione si stia facendo via via sempre più labile: le imprese possono sempre meno garantire continuità di protezione e quindi anche le persone investono sulla propria carriera in misura ridotta e in forma più condizionata. Inoltre, soprattutto le nuove generazioni sono portatrici di valori innovativi, la cui comprensione e gestione è tutt’altro che semplice.
La fedeltà all’azienda in previsione di una futura progressione di carriera non è più l’elemento primario che influenza i comportamenti dei lavoratori con potenziale. Il senso di precarietà si è fatto così pervasivo da essere considerato come connaturato con l’attuale modello economico.
In un mondo che diventa ogni giorno più interconnesso grazie a sistemi e reti, vanno via via cadendo anche le barriere che separavano i dipendenti dalle informazioni, dagli obiettivi aziendali e da altri colleghi e utenti. Se, da un lato, la rimozione di queste barriere apre la strada a tutta una serie di nuove possibilità, dall’altro espone i lavoratori a inediti scenari, caratterizzati da una maggiore incertezza, da un’enorme quantità d’informazioni, da incessanti richieste di attenzione da parte dei clienti e dall’esigenza di acquisire e padroneggiare un’enorme mole di competenze e abilità.
La capacità delle organizzazioni di affrontare il cambiamento, le incertezze e le opportunità dell’economia globale è direttamente legata alla possibilità per i capi, ai diversi livelli dell’organizzazione, di svolgere al meglio il proprio lavoro. Il che non significa solamente dotarli di tecnologia più evoluta o offrire loro maggiore formazione, ma significa anche metterli in grado di mettere a frutto il proprio talento, la propria esperienza e il proprio giudizio in situazioni in cui possano fare la differenza.
Mentre negli anni ’80 o durante la new economy le imprese costituivano un modello organizzativo socialmente desiderabile e i capi avevano una funzionalità sociale che andava oltre i confini della loro struttura d’appartenenza, oggi le cose sono cambiate e il management sembra essere sotto attacco.
Le organizzazioni richiedono alle persone (e, quindi, prima di tutti ai loro capi) affidabilità, innovazione, continuità e identità organizzativa. Nel concreto le imprese richiedono capi giovani, ma già esperti, fedeli all’organizzazione, depositari di competenze chiave, disposti ad un investimento personale, profondi conoscitori di processi, prodotti, clienti, nodi centrali nelle reti di relazioni informali e garanti della qualità di servizi affidati a operatori “instabili” (con alto turn-over, rapporti di lavoro temporanei e/o flessibili, e così via).
Al contrario, i collaboratori sembrano volere capi innovatori, ma stabili ed affidabili, che garantiscano autonomia e valorizzino i contributi dei singoli e della squadra, che gestiscano la comunicazione e sviluppino il potenziale, che trasferiscano certezze ed appianino i conflitti garantendo un buon clima e così via.
Dal capo si vorrebbe tutto e il contrario di tutto, salvo poi imputare loro qualsiasi malfunzionamento delle organizzazioni e delle istituzioni. Forse è il caso di smetterla. È prima di tutto necessario ristabilire un patto forte tra imprese e capi. Nel concreto, le aziende possono offrire “sure employability” e richiedere motivazione e flessibilità.
Per “sure employability” intendo la sicurezza della rivendibilità delle persone sul mercato del lavoro. Si tratta della meta di un percorso lungo e tutt’altro che scontato. Richiede alcune condizioni concrete di non facile attuazione.
Prima di tutto una formazione continua. I capi, infatti, soprattutto ad un livello medio basso, non sempre sono sollecitati dalle imprese ad un costante aggiornamento tecnologico. Questo determina, alla fine, una minore rivendibilità sul mercato del lavoro in caso di crisi aziendali. Le imprese dovrebbero però essere supportate da un sistema pubblico che attualmente è invece latitante.
I centri per l’impiego ormai non servono più a nulla dal punto di vista delle politiche attive del lavoro, la formazione professionale andrebbe rifondata, così come la connessione tra strutture pubbliche e private per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.
I capi hanno ormai capito che è inutile cercare la sicurezza e la stabilità del posto di lavoro per legge o per contratto, e così cominciano a richiedere la ‘sicurezza’ del proprio sviluppo professionale e la certezza di mantenere un buon grado di ‘appetibilità’ sul mercato del lavoro.
Le organizzazioni, in buona sostanza, possono e devono chiedere al capo di creare i propri sostituti solo se sono in grado di offrire risposte concrete di sviluppo, dentro o fuori i propri confini. Se ciò non avviene, inutile prodursi in succession plan sempre più sofisticati: se non diamo sicurezza ai capi, questi non faranno mai niente per far crescere i propri collaboratori.
Chi ha voglia di mettersi nella condizione di dover scegliere tra la donna e la tigre?!
Per essere ancora più chiaro, chi può avere voglia di allevare il proprio boia?!
Paolo Iacci, Presidente Eca Università Statale di Milano