FORMAZIONE PROFESSIONALE E DISOCCUPAZIONE GIOVANILE
-Io a scuola non ci voglio andare!
-Perché?
-Perché mi picchiano, mi prendono in giro, e poi non mi piace!
-Invece tu ci vai!
– Non mi piace, non ci voglio andare
– Giovanni, ci devi andare!
-No!
-Giovanni, smettila di fare i capricci: hai 50 anni, e poi… in quella scuola sei il preside!
In questi giorni sono usciti dei dati sull’occupazione, tra loro in apparente contraddizione.
Unioncamere e Anpal segnalano che da un lato il tasso di occupazione è salito a oltre il 60%: si tratta del valore record dal 1977. Per i giovani, però la disoccupazione è salita al 23,7%.Inoltre, le previsioni di assunzioni per l’ultimo trimestre di quest’anno sono in caduta libera: – 26,5% rispetto l’anno scorso. Vale per tutti i tipi di contratti, compresi quelli a part time e quelli a termine.
La seconda notizia, proveniente sempre dalle stesse fonti, è clamorosa: nel 50% dei casi le imprese non assumono perché non trovano le necessarie competenze sul mercato. Non stiamo parlando della solita micro-impresa che offre una miseria o un lavoro in nero. Stiamo parlando delle aziende censite, quelle che costituiscono il nostro tessuto produttivo. In Italia vi sono centinaia di migliaia di posti di lavoro regolari che rimangono scoperti per mancanza di competenze. Per chi fa selezione in azienda questa non è una sorpresa, è il pane di tutti i giorni.
La terza notizia riguarda il numero dei NEET: abbiamo quasi raggiunto quota tre milioni, la più alta percentuale in UE di giovani tra i 15 e i 34 anni che non lavorano. Uno su quattro. Il rapporto Eurofound ci dice anche che un basso livello di istruzione aumenta di 3 volte il rischio di diventare NEET, avere una disabilità aumenta il rischio del 40% e avere genitori con un basso livello di istruzione raddoppia il rischio. Le donne hanno il 60% di probabilità in più.
Il paradosso è solo apparente: l’impossibilità di trovare persone qualificate e specializzate di cui le imprese hanno urgente necessità non si evidenzia soltanto nei periodi di congiuntura favorevole, ma anche in quelli di recessione. Si tratta di veri e propri “giacimenti occupazionali”, misurabili in molte centinaia di migliaia di posti di lavoro, che restano inutilizzati. Difficile fare stime precise. Sicuramente, però, per i nostri giovani sarebbe una vera e propria manna poter essere in grado di offrire sul mercato del lavoro competenze adeguate alle necessità. E per le imprese la panacea per riuscire a stare al passo con l’innovazione tecnologica e con la concorrenza internazionale.
Le leve per uscire da questo impasse sono molteplici. Io qui ne voglio segnalare solo una tra queste, sottolineata in questi giorni anche da Pietro Ichino. La riprendo anche perché è evidente e sotto gli occhi di tutti. Da sempre nessuno controlla con sistematicità l’efficacia del sistema della formazione professionale e, soprattutto, ne trae poi le necessarie conseguenze. Per farlo, però, il modo c’è ed è previsto dal Jobs Act, articoli 13-16 del d.lgs. n. 150/2015. Istituire un’anagrafe della formazione professionale e incrociarne i dati con quelli delle comunicazioni obbligatorie sulle assunzioni che arrivano per legge al ministero del Lavoro. Sarebbe così possibile conoscere di ogni corso il tasso di coerenza tra la formazione impartita e gli esiti occupazionali effettivi, che è l’indice migliore della qualità del servizio. Ma questa previsione legislativa in questi sette anni è stata totalmente disattesa. Il motivo, purtroppo, è semplicissimo.
Una mappatura rigorosa dell’efficacia della formazione professionale porterebbe a chiudere una buona metà dei centri che oggi vengono finanziati col denaro pubblico. Questo ovviamente metterebbe in forse la stabilità occupazionale degli addetti a questi corsi. Tutti noi sappiamo che un insegnante trasferito farebbe immediatamente notizia, mentre tre milioni di giovani a casa non scendono in piazza (almeno per ora). Si vive solo sul brevissimo e sul consenso immediato. Così, nei fatti, si preferisce la stabilità degli addetti all’interesse della generalità delle persone. Eppure, così facendo, si colpiscono soprattutto le fasce più deboli della popolazione, i più giovani, i più poveri. Per risolvere il problema occorre mettere al primo posto l’interesse degli utenti, imprese, giovani e disoccupati, invece di subordinarlo a quello di un ristretto numero di addetti al servizio.